martedì 20 settembre 2016

Mare al mattino



Sono comportamenti che viaggiano e si spostano da un corpo all’altro. Tentativi di vita. Ripetere al meglio quello che sai fare. Tirare fuori le emozioni come una grandine violenta. Come se non fossero le tue. Tu le stai semplicemente provando, le stai ballando con gli altri. Tu sei solo il muso dove la grandine batte, dove i giochi di luce passano.


Tre pallide maschere prive di qualunque espressione conosciuta, riconducibile alla vita che Alì gli aveva visto vivere fino a quel giorno. Sembrava che qualcuno durante la notte li avesse uccisi, e poi li avesse rifatti di cera. Colati nello stesso stampo di se stessi. Avevano una certa somiglianza, ma non erano più loro. Anche gli occhi erano fissi e imbevuti di morte come quelli degli uccelli impagliati.


Per undici anni Angelina è stata araba.
Era poco prima dell’adolescenza. Era stato un passaggio. Un calcio nella pancia.
C’è qualcosa nel luogo dove si nasce. Non tutti lo sanno. Solo chi è strappato a forza lo sa.
Un cordone sepolto nella sabbia.
Un dolore che tira sotto e ti fa odiare i tuoi passi successivi.


La nonna avanzava come una morta vivente nel calvario di quella restituzione, troppo improvvisa per non essere violenta. Angelina la sorreggeva.
S’erano infilate nel setaccio dei ricordi prima intimidite, poi quasi pazze. Svolazzando tra rabbia e gioia. I capelli scomposti, gli occhi pani di lampi, dove sembrava specchiarsi la paura di tutto quel tempo e di tutta quella fame.
Di tutti i pescherecci arrivati e di quelli affogati nelle tempeste. Occhi berberi, davvero. Che scavano nella profondità delle cose rubate e mai restituite.


La nonna disse chi ti risarcisce di quello che ti hanno rubato? Avevamo uliveti e amici. Avevamo una storia.

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