Sono comportamenti che viaggiano e si spostano
da un corpo all’altro. Tentativi di vita. Ripetere al meglio quello che sai
fare. Tirare fuori le emozioni come una grandine violenta. Come se non fossero
le tue. Tu le stai semplicemente provando, le stai ballando con gli altri. Tu
sei solo il muso dove la grandine batte, dove i giochi di luce passano.
Tre pallide maschere prive di qualunque
espressione conosciuta, riconducibile alla vita che Alì gli aveva visto vivere
fino a quel giorno. Sembrava che qualcuno durante la notte li avesse uccisi, e
poi li avesse rifatti di cera. Colati nello stesso stampo di se stessi. Avevano
una certa somiglianza, ma non erano più loro. Anche gli occhi erano fissi e
imbevuti di morte come quelli degli uccelli impagliati.
Per undici anni Angelina è stata araba.
Era poco prima dell’adolescenza. Era stato un
passaggio. Un calcio nella pancia.
C’è qualcosa nel luogo dove si nasce. Non
tutti lo sanno. Solo chi è strappato a forza lo sa.
Un cordone sepolto nella sabbia.
Un dolore che tira sotto e ti fa odiare i tuoi
passi successivi.
La nonna avanzava come una morta vivente nel calvario
di quella restituzione, troppo improvvisa per non essere violenta. Angelina la
sorreggeva.
S’erano infilate nel setaccio dei ricordi
prima intimidite, poi quasi pazze. Svolazzando tra rabbia e gioia. I capelli
scomposti, gli occhi pani di lampi, dove sembrava specchiarsi la paura di tutto
quel tempo e di tutta quella fame.
Di tutti i pescherecci arrivati e di quelli
affogati nelle tempeste. Occhi berberi, davvero. Che scavano nella profondità
delle cose rubate e mai restituite.
La nonna disse chi ti risarcisce di quello che ti hanno rubato? Avevamo uliveti e
amici. Avevamo una storia.
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