Si parte prima. A volte molto prima.
BELIZE
Scorbutici, quelli di San Pedro. Ci avevano avvertito, per cui non soffriamo dello stile del luogo. Il mare non è strepitoso o forse non siamo dello spirito giusto, la giornata ingrigisce senza un motivo e rimaniamo tutto il giorno, pigramente, in spiaggia.
Pausa per uno spuntino in un chiosco.
“Italiani o francesi?”
Mi giro e, lì per lì, non riesco a vedere chi ci ha fatto la domanda, guardo verso il bancone e non presto attenzione a una serie di bassi sedili rivolti verso la spiaggia.
Siate italiani, sento e allora la vedo: è una signora bassa pure lei, anzi bassissima, anzi una nana con sorrisone e costume da bagno bianco. Sta bevendo qualcosa. Nota la mia sorpresa, si alza e viene verso il nostro tavolino.
Andrea rimane un poco interdetto e poi l’abbraccia quasi la solleva da terra .
Quella sgambetta lievemente, ma intervengo per rimettere le cose a posto.
Si chiama Manuela, è un avvocato di Bilbao, per metà vacanza e per un quarto in missione speciale.
E l’altro quarto?, chiedo.
“Lo impiego per attività biologiche standard”
Cerco di capire di cosa si occupi e mi risponde: “Non di diritti umani”
“Perché ne abbiamo sin troppi?”
L’avvocato scoppia a ridere.
“Cos’ha suo figlio?”
“È autistico”
“Non dovrei dirlo io, data la mia stazza, ma è una bella sfortuna”.
Mi irrigidisco e lei, sensibilissima, se ne accorge subito.
“No, non pensi che la mia sia una frase discrminatoria”
“Ah, no?”
“Senta, se le fosse un cane, non le piacerebbe rosicchiare un osso?”
“Credo di sì”.
“E invece le danno quelle poltiglie puzzolenti in scatola oppure crocchette secche che ti viene l’ugola riarsa e anche se sei un onesto cane di casa berresti una pinta di birra. Capisce? È per il nostro bene. Ti amano, ti allevano, ti selezionano e ti trasformano, così sei costretto ad accettare cose che per te sono nocive. Capisce con che razza di normalità abbiamo a che fare noi diversi? Cani compresi, naturalmente”.
Se ti abbraccio non aver paura
E si lancia in una vivace dissertazione sulla normalità, sul fatto che sia una mera convenzione, che essere normali non significa poi nulla sul piano qualitativo: essere normex significa solo avere un minimo di istruzioni per l’uso.
Sorrido, me lo dico sempre a casa, quando rimango da solo, improvvisamente libero di decidere se uscire con gli amici o sdraiarmi sul divano: troppo facile la vita, senza Andrea!
I normex, come tutti quelli che vivono troppo facilmente, prosegue lei imperterrita, non sopportano la diversità, non capiscono per davvero cosa significhi spendere in vita più di quanto si guadagni con essa, che si corre verso un traguardo sempre con le scarpe di piombo, certo, poverini i normali, non riescono proprio ad apprezzare certi inceppi della vita, se, hanno cose così alte e creative a cui badare: gli acquisti a rate e, naturalmente, una dozzina di conflitti, un paio di bombe sul Giappone, qualche decina di sterminii religiosi, perché lei l’ha mai visto un ragazzo autistico comandare un massacro, un imbroglio, un’oppressione sui propri simili? Se li immagina un consenso di azionisti, una seduta parlamentare, se i partecipanti fossero tutti autistici? Si rende conto di quanti meno guai si produrrebbero?
Non si è nemmeno d’accordo su come chiamarli, i figli come il suo: disabili, diversamente abili, handicappati… gli eufemismi si sprecano. Io trovo che sarebbe più chiaro usare la parola dipendenti. Nel senso che dipendono da qualcuno, chi più chi meno. So bene che i dipendenti sono centinaia di milioni sul pianete. Però questi particolari dipendenti non smettono mai di esserlo, non vanno mai, per così dire, in pensione. Nemmeno hanno un bel sindacato che li tuteli, una corporazione che li protegga. Sa, i dipendenti non devono certo imporre il loro controllo sul pianeta, la loro dittatura. Gli basterebbe fare meno fatica, avere qualche giorno di ferie, magari qualche piccola gratificazione.
“Allora si occupa proprio di diritti umani!”
No, mi occupo di altre sciocchezze e trangugia il bicchiere che s’è portata con sé. Dev’essere molto alcolico. Scende dalla sedia, con lo stesso impegno che ci aveva messo per salire, strizza l’occhio ad Andrea, dice di passare un giorno da Bilbao.
“Ciao italiani…”
Torniamo sulla spiaggia. A essere sinceri, in Belize l’energia non ci pare intensa come altrove. È un luogo che si lascia attraversare, lo diresti fatto di niente. Certe terre mettono il fuoco dentro, certi nani allargano gli orizzonti.
Domani ripartiamo. Domani si va a Tulum.
[…] Quotidianità: afferrare una tazza, sorseggiare un caffè come si deve dopo esserci lavati i denti in un bagno tutto nostro, davanti a uno specchio, con il tempo di fare smorfie e sorrisi. Andrea pare apprezzare molto: beve a grandi sorsi, morsica la torta, semina briciole, si alza e chiude un armadietto, si rialza e lo riapre, fruga, sposta, si risiede. La moglie di Lorenzo non fiata e lui nemmeno: ospitalità.
Scorbutici, quelli di San Pedro. Ci avevano avvertito, per cui non soffriamo dello stile del luogo. Il mare non è strepitoso o forse non siamo dello spirito giusto, la giornata ingrigisce senza un motivo e rimaniamo tutto il giorno, pigramente, in spiaggia.
Pausa per uno spuntino in un chiosco.
“Italiani o francesi?”
Mi giro e, lì per lì, non riesco a vedere chi ci ha fatto la domanda, guardo verso il bancone e non presto attenzione a una serie di bassi sedili rivolti verso la spiaggia.
Siate italiani, sento e allora la vedo: è una signora bassa pure lei, anzi bassissima, anzi una nana con sorrisone e costume da bagno bianco. Sta bevendo qualcosa. Nota la mia sorpresa, si alza e viene verso il nostro tavolino.
Andrea rimane un poco interdetto e poi l’abbraccia quasi la solleva da terra .
Quella sgambetta lievemente, ma intervengo per rimettere le cose a posto.
Si chiama Manuela, è un avvocato di Bilbao, per metà vacanza e per un quarto in missione speciale.
E l’altro quarto?, chiedo.
“Lo impiego per attività biologiche standard”
Cerco di capire di cosa si occupi e mi risponde: “Non di diritti umani”
“Perché ne abbiamo sin troppi?”
L’avvocato scoppia a ridere.
“Cos’ha suo figlio?”
“È autistico”
“Non dovrei dirlo io, data la mia stazza, ma è una bella sfortuna”.
Mi irrigidisco e lei, sensibilissima, se ne accorge subito.
“No, non pensi che la mia sia una frase discrminatoria”
“Ah, no?”
“Senta, se le fosse un cane, non le piacerebbe rosicchiare un osso?”
“Credo di sì”.
“E invece le danno quelle poltiglie puzzolenti in scatola oppure crocchette secche che ti viene l’ugola riarsa e anche se sei un onesto cane di casa berresti una pinta di birra. Capisce? È per il nostro bene. Ti amano, ti allevano, ti selezionano e ti trasformano, così sei costretto ad accettare cose che per te sono nocive. Capisce con che razza di normalità abbiamo a che fare noi diversi? Cani compresi, naturalmente”.
Se ti abbraccio non aver paura
E si lancia in una vivace dissertazione sulla normalità, sul fatto che sia una mera convenzione, che essere normali non significa poi nulla sul piano qualitativo: essere normex significa solo avere un minimo di istruzioni per l’uso.
Sorrido, me lo dico sempre a casa, quando rimango da solo, improvvisamente libero di decidere se uscire con gli amici o sdraiarmi sul divano: troppo facile la vita, senza Andrea!
I normex, come tutti quelli che vivono troppo facilmente, prosegue lei imperterrita, non sopportano la diversità, non capiscono per davvero cosa significhi spendere in vita più di quanto si guadagni con essa, che si corre verso un traguardo sempre con le scarpe di piombo, certo, poverini i normali, non riescono proprio ad apprezzare certi inceppi della vita, se, hanno cose così alte e creative a cui badare: gli acquisti a rate e, naturalmente, una dozzina di conflitti, un paio di bombe sul Giappone, qualche decina di sterminii religiosi, perché lei l’ha mai visto un ragazzo autistico comandare un massacro, un imbroglio, un’oppressione sui propri simili? Se li immagina un consenso di azionisti, una seduta parlamentare, se i partecipanti fossero tutti autistici? Si rende conto di quanti meno guai si produrrebbero?
Non si è nemmeno d’accordo su come chiamarli, i figli come il suo: disabili, diversamente abili, handicappati… gli eufemismi si sprecano. Io trovo che sarebbe più chiaro usare la parola dipendenti. Nel senso che dipendono da qualcuno, chi più chi meno. So bene che i dipendenti sono centinaia di milioni sul pianete. Però questi particolari dipendenti non smettono mai di esserlo, non vanno mai, per così dire, in pensione. Nemmeno hanno un bel sindacato che li tuteli, una corporazione che li protegga. Sa, i dipendenti non devono certo imporre il loro controllo sul pianeta, la loro dittatura. Gli basterebbe fare meno fatica, avere qualche giorno di ferie, magari qualche piccola gratificazione.
“Allora si occupa proprio di diritti umani!”
No, mi occupo di altre sciocchezze e trangugia il bicchiere che s’è portata con sé. Dev’essere molto alcolico. Scende dalla sedia, con lo stesso impegno che ci aveva messo per salire, strizza l’occhio ad Andrea, dice di passare un giorno da Bilbao.
“Ciao italiani…”
Torniamo sulla spiaggia. A essere sinceri, in Belize l’energia non ci pare intensa come altrove. È un luogo che si lascia attraversare, lo diresti fatto di niente. Certe terre mettono il fuoco dentro, certi nani allargano gli orizzonti.
Domani ripartiamo. Domani si va a Tulum.
[…] Quotidianità: afferrare una tazza, sorseggiare un caffè come si deve dopo esserci lavati i denti in un bagno tutto nostro, davanti a uno specchio, con il tempo di fare smorfie e sorrisi. Andrea pare apprezzare molto: beve a grandi sorsi, morsica la torta, semina briciole, si alza e chiude un armadietto, si rialza e lo riapre, fruga, sposta, si risiede. La moglie di Lorenzo non fiata e lui nemmeno: ospitalità.
“Funziona che la vita sta tutta sotto una grande curva a campana, con al centro disturbi comuni e ai lati stravaganze d’ogni sorta. La vita è diluita nel mezzo e troppo densa ai lati”.
“Non capisco”.
“La vita è imperfetta, ma ha una sua forza”.
“Senhor [...] la gente pensa che l'amore sia una proprietà degli umani, come il peso per il piombo. Che l'amore venga da sé”.
“Invece?”
“Io ho capito che funziona come la temperatura. Puoi andare sotto zero o a cento gradi. A volte bisogna essere distanti e silenziosi, perchè ci sono persone che se le tocchi si dividono come il mercurio. Altre volte si deve stare vicini come un respiro. Volendo ne combini di disastri con l'amore”.
“E allora?”
“Io ho applicato all'amore una manopolina di mia invenzione, senhor. Capisco quando bisogna alzarla e quando abbassarla. Dipende dalla Persona, dipende dal MOMENTO. L'Amore, senhor, è la giusta temperatura per far sbocciare un fiore”.
LICHENI
Tre giorni di relax volati in un soffio. Mi trovo a pensare che vivendo così, a contatto per tanto tempo, senza sosta, e dividendo ogni singola emozione, la percezione della diversità di Andrea è diventata più intima. Cercando di portare Andrea nel mio mondo forse sono solo riuscito a fare un piccolo passo nel suo: un po’ più autistico credo di esserlo diventato.
Ieri, con gli amici, abbiamo parlato a lungo di questo viaggio. Loro sono convinti che la principale motivazione fosse un mio bisogno di libertà.
“Non hai sentito un profumo strano, le settimane o i mesi prima di partire?”
“Qualcosa dentro, quasi nella pancia”.
“Sì, credo di averlo provato”.
“Ecco” esclama Lorenzo “quello è il bisogno di libertà!”
“Credi che sia venuto qui solo per un bisogno mio?”
“Ma il tuo e quello di Andrea non si potranno mia separare. Dai, siete un lichene: un’alga e un fungo appiccicati assieme…”
Andrea è l’alga di sicuro.
Ma uniti l’alga e il fungo sono tenaci, aggiunge, non li puoi separare […]
“Non capisco”.
“La vita è imperfetta, ma ha una sua forza”.
“Senhor [...] la gente pensa che l'amore sia una proprietà degli umani, come il peso per il piombo. Che l'amore venga da sé”.
“Invece?”
“Io ho capito che funziona come la temperatura. Puoi andare sotto zero o a cento gradi. A volte bisogna essere distanti e silenziosi, perchè ci sono persone che se le tocchi si dividono come il mercurio. Altre volte si deve stare vicini come un respiro. Volendo ne combini di disastri con l'amore”.
“E allora?”
“Io ho applicato all'amore una manopolina di mia invenzione, senhor. Capisco quando bisogna alzarla e quando abbassarla. Dipende dalla Persona, dipende dal MOMENTO. L'Amore, senhor, è la giusta temperatura per far sbocciare un fiore”.
LICHENI
Tre giorni di relax volati in un soffio. Mi trovo a pensare che vivendo così, a contatto per tanto tempo, senza sosta, e dividendo ogni singola emozione, la percezione della diversità di Andrea è diventata più intima. Cercando di portare Andrea nel mio mondo forse sono solo riuscito a fare un piccolo passo nel suo: un po’ più autistico credo di esserlo diventato.
Ieri, con gli amici, abbiamo parlato a lungo di questo viaggio. Loro sono convinti che la principale motivazione fosse un mio bisogno di libertà.
“Non hai sentito un profumo strano, le settimane o i mesi prima di partire?”
“Qualcosa dentro, quasi nella pancia”.
“Sì, credo di averlo provato”.
“Ecco” esclama Lorenzo “quello è il bisogno di libertà!”
“Credi che sia venuto qui solo per un bisogno mio?”
“Ma il tuo e quello di Andrea non si potranno mia separare. Dai, siete un lichene: un’alga e un fungo appiccicati assieme…”
Andrea è l’alga di sicuro.
Ma uniti l’alga e il fungo sono tenaci, aggiunge, non li puoi separare […]
CHE BELLA BARACCA
Battiti d’ali, grida di animali: la foresta si muove prestissimo. Guardo l’orologio: quasi le sei. Andrea è già sveglio, in ascolto. Meglio così, dobbiamo alzarci, perché per arrivare a Panama ci vogliono quasi cinque ore. A mezzogiorno ci aspettano al confine per il cambio dell’auto.
Il viaggio è tranquillo, abbiamo fatto un callo strepitoso alle buche e alle numerosissime imperfezioni della strada. Dopo un paio di ore, proprio sul ciglio, vediamo una casupola così mal ridotta che non voglio pensare che qualcuno la usi come abitazione. Dopo l’hotel Iguana, soprattutto. Le pareti sono pezzi di legno d’ogni forma, il tetto è una crosta di lamiere sbilenche. Scorgo un paio di maiali legati al palo e questo non è, per niente, un indizio a favore di un rudere abbandonato. Aspetta, mi dico, non è possibile che si possa vivere lì dentro. Quei maiali così magri e tristi…
Dalla baracca esce un tipo sui cinquant’anni. È vestito malamente, piuttosto sporco, e fa un cenno con la mano. Lieve, niente di invadente. Come a dire: esisto, per quel che posso. M’ingarbuglio con la retromarcia, sale uno strano effetto dallo stomaco.
Supero la baracca e nello specchietto retrovisore mi sembra di vedere ancora quel movimento della mano. Che si fa? Mi ha trasmesso qualcosa. Guardo Andrea: mi conosci! Torniamo indietro.
Sentendo di nuovo la macchina escono altre due persone, e ci troviamo con tre uomini schierati, come una truppa di fanti in rassegna. Salutano sommessamente. Lo sguardo gentile. Il più alto fa le presentazioni: sono due fratelli e il terzo è un tipo svampito, che vive con loro. Ci porge il continuazione la mano per stringerla. Capisco che non possiedono quasi nulla, poche galline che corrono che corrono libere e i maiali legati, il loro conto in banca. Dietro la casupola la foresta, fitta, incombente. Deve essere difficile strappare un pezzo di terra e coltivarlo.
Ci invitano a entrare. Si mettono le mani sul cuore, l’uomo un poco svampito, appena possibile, mi prende la mia e non la lascia. Alla fine lo vediamo. Anzi, ci viene un tufo al cuore prima ancora di mettere a fuoco la figura. Sopra un materasso liso, meno d’una caricatura di letto, se ne sta disteso un ragazzo che avrà vent’anni.
Gli altri si affannano a spiegarci che è invalido e ci mostrano le gambe, anchilosate. Non riesce a camminare, si issa aggrappandosi ai pali della stanza con le mani, che sembrano artigli. Stringe, sena mollarla mai, una bottiglia di plastica da mezzo litro, la tiene come avesse un animaletto da compagnia.
Lo osservo, ne guardo i movimenti, anche quello degli occhi, e riconosco in quel ragazzo i segni dell’autismo. Muove le mani proprio come Andrea, rivedo gli scatti del capo e una scarica di rabbia mi brucia i polmoni. L’autismo che si somma a tutto il resto: fortuna aggiunta a fortuna! Respiro a fatica, mi guardo attorno incredulo. Interrogo con lo sguardo gli adulti, sperando che mi dicano che quel ragazzo non passa tutta la sua esistenza tra quel letto e i pali a cui si aggrappa. No, no, penso: avete una vecchia jeep da qualche parte, io non l’ho vista e forse la nascondete perché il fisco non vi scopra, avete una jeep, caricate il ragazzo e ogni giorno vi fate un bel giro per la foresta a guardare gli alberi dal basso, inseguite i pappagalli e anche il ragazzo allunga le mani per prenderli. Quando non siete nella foresta, nelle belle giornate, il ragazzo se ne sta seduto al sole su una comoda poltrona, saluta le macchine, i camionisti si fermano e raccontano come va il mondo, perché sono gentili e non hanno fretta, lui ascolta, magari sorride e mi auguro, ma proprio tanto, che qui non piova mai, perché non voglio pensare a cosa può accadere quando piove, come potrà reagire disteso sul giaciglio diventato una zattera che galleggia sull’acqua, mentre gli adulti si arrabattano per procurarsi da vivere e lui potrà solo chiamare all’appello i suoi marinai: aiuto, aiuto, venite in soccorso e i due maiali arriveranno di corsa per cercare di salpare e salvargli l’anima. Mi vengono i brividi. Sono completamente disarmato.
Ci dicono che Jorge ha ventidue anni, ma non riesco a capire di chi si figlio, perché il dialogo è borbottante e, del resto, tutti e tre gli uomini sono affettuosi con lui. Lo abbraccio e l’emozione che provo e travolgente. E lui? Ride. Sì, ride. Dannato Jorge, penso, stai così conciato e i tuoi occhi sono pieni di felicità. Come se ti raccontassimo chissà che barzelletta o fiabe bellissime o fossimo, al tuo sguardo, creature ridicole come mai ne avevi viste prime. Ride di cuore, siamo in una catapecchia e ci pare di essere invitati a una festa di compleanno.
Andrea, nel frattempo ha messo in ordine un po’ di oggetti, raddrizzato un calendario vecchio e macilento e rovistato in una scatola piena di viti e bulloni. Ha continuato ad abbracciare tutti. Osserva con occhi attenti, chissà quali foto sta scattando.
Sarà per la semplicità disarmante degli uomini, per gli abbracci ricambiati, per gli occhi di Jorge, per il placido ondeggiare dei maiali, ma il tempo vola. Mi sento parte di una piccola comunità di fratelli. È impossibile proseguire, rimaniamo con loro tutta la mattinata. Il distacco è faticoso. Lasciamo un po’ di denaro e alcune maglie per Jorge. Non ci hanno chiesto nulla e ci ringraziamo come avessimo regalato un pezzo di cielo.
Per il resto del viaggio sentiamo un peso al cuore, sembriamo paralizzati, anche Andrea si è ritirato in profondità. Poi riaffiora come se niente fosse, una stazione di servizio come un’altra.
Impreco ma lo amo. Non so di cosa sia fatto questo amore. Credo che nessun genitore possa rispondere facilmente a questa domanda. A volte è sepolto. A volte è indifferente. A volte è solo amore per se stessi. A volte è semplicemente sentire la vita che ti attraversa: è partita da n punto, tu la prendi in consegna e la passi a qualcuno.
Una possibilità concreta, perché la vita non scherza, è che Andrea trascini la sua esistenza in qualche contenitore: refettorio, regole, farmaci. Senza relazioni vere, senza affetti veri. Immerso in una solitudine che andrà a sommarsi alla sua. Non è facile farsene una ragione. Adesso c’è ancora energia e la mente riesce a far ruotare la mia esistenza attorno alla sua. Ma il tempo non le è alleato, non ci sarà un giorno, nel futuro, in cui Andrea improvvisamente riuscirà a congiungere il suo mondo con questo mondo. Un giorno in cui, trovando me su una panchina, lui si avvicinerà di soppiatto, con quel suo sorriso, per dirmi: va bene papà, puoi andare dove vuoi adesso, me la cavo da solo.
Poi resteranno solo i pezzettini di carta, pagine sbriciolate che Andrea lascia ovunque, come una semina per indicare la via tra questa nostra esistenza e il paradiso.
Saranno i vuoti d’aria, sarà la fine del viaggio. Sarà che la vita è complicata e bella. Sarà perché noi non sappiamo e almeno immaginare, bello obrutto che sia, ci porta oltre.
Ci porta a domani.
Battiti d’ali, grida di animali: la foresta si muove prestissimo. Guardo l’orologio: quasi le sei. Andrea è già sveglio, in ascolto. Meglio così, dobbiamo alzarci, perché per arrivare a Panama ci vogliono quasi cinque ore. A mezzogiorno ci aspettano al confine per il cambio dell’auto.
Il viaggio è tranquillo, abbiamo fatto un callo strepitoso alle buche e alle numerosissime imperfezioni della strada. Dopo un paio di ore, proprio sul ciglio, vediamo una casupola così mal ridotta che non voglio pensare che qualcuno la usi come abitazione. Dopo l’hotel Iguana, soprattutto. Le pareti sono pezzi di legno d’ogni forma, il tetto è una crosta di lamiere sbilenche. Scorgo un paio di maiali legati al palo e questo non è, per niente, un indizio a favore di un rudere abbandonato. Aspetta, mi dico, non è possibile che si possa vivere lì dentro. Quei maiali così magri e tristi…
Dalla baracca esce un tipo sui cinquant’anni. È vestito malamente, piuttosto sporco, e fa un cenno con la mano. Lieve, niente di invadente. Come a dire: esisto, per quel che posso. M’ingarbuglio con la retromarcia, sale uno strano effetto dallo stomaco.
Supero la baracca e nello specchietto retrovisore mi sembra di vedere ancora quel movimento della mano. Che si fa? Mi ha trasmesso qualcosa. Guardo Andrea: mi conosci! Torniamo indietro.
Sentendo di nuovo la macchina escono altre due persone, e ci troviamo con tre uomini schierati, come una truppa di fanti in rassegna. Salutano sommessamente. Lo sguardo gentile. Il più alto fa le presentazioni: sono due fratelli e il terzo è un tipo svampito, che vive con loro. Ci porge il continuazione la mano per stringerla. Capisco che non possiedono quasi nulla, poche galline che corrono che corrono libere e i maiali legati, il loro conto in banca. Dietro la casupola la foresta, fitta, incombente. Deve essere difficile strappare un pezzo di terra e coltivarlo.
Ci invitano a entrare. Si mettono le mani sul cuore, l’uomo un poco svampito, appena possibile, mi prende la mia e non la lascia. Alla fine lo vediamo. Anzi, ci viene un tufo al cuore prima ancora di mettere a fuoco la figura. Sopra un materasso liso, meno d’una caricatura di letto, se ne sta disteso un ragazzo che avrà vent’anni.
Gli altri si affannano a spiegarci che è invalido e ci mostrano le gambe, anchilosate. Non riesce a camminare, si issa aggrappandosi ai pali della stanza con le mani, che sembrano artigli. Stringe, sena mollarla mai, una bottiglia di plastica da mezzo litro, la tiene come avesse un animaletto da compagnia.
Lo osservo, ne guardo i movimenti, anche quello degli occhi, e riconosco in quel ragazzo i segni dell’autismo. Muove le mani proprio come Andrea, rivedo gli scatti del capo e una scarica di rabbia mi brucia i polmoni. L’autismo che si somma a tutto il resto: fortuna aggiunta a fortuna! Respiro a fatica, mi guardo attorno incredulo. Interrogo con lo sguardo gli adulti, sperando che mi dicano che quel ragazzo non passa tutta la sua esistenza tra quel letto e i pali a cui si aggrappa. No, no, penso: avete una vecchia jeep da qualche parte, io non l’ho vista e forse la nascondete perché il fisco non vi scopra, avete una jeep, caricate il ragazzo e ogni giorno vi fate un bel giro per la foresta a guardare gli alberi dal basso, inseguite i pappagalli e anche il ragazzo allunga le mani per prenderli. Quando non siete nella foresta, nelle belle giornate, il ragazzo se ne sta seduto al sole su una comoda poltrona, saluta le macchine, i camionisti si fermano e raccontano come va il mondo, perché sono gentili e non hanno fretta, lui ascolta, magari sorride e mi auguro, ma proprio tanto, che qui non piova mai, perché non voglio pensare a cosa può accadere quando piove, come potrà reagire disteso sul giaciglio diventato una zattera che galleggia sull’acqua, mentre gli adulti si arrabattano per procurarsi da vivere e lui potrà solo chiamare all’appello i suoi marinai: aiuto, aiuto, venite in soccorso e i due maiali arriveranno di corsa per cercare di salpare e salvargli l’anima. Mi vengono i brividi. Sono completamente disarmato.
Ci dicono che Jorge ha ventidue anni, ma non riesco a capire di chi si figlio, perché il dialogo è borbottante e, del resto, tutti e tre gli uomini sono affettuosi con lui. Lo abbraccio e l’emozione che provo e travolgente. E lui? Ride. Sì, ride. Dannato Jorge, penso, stai così conciato e i tuoi occhi sono pieni di felicità. Come se ti raccontassimo chissà che barzelletta o fiabe bellissime o fossimo, al tuo sguardo, creature ridicole come mai ne avevi viste prime. Ride di cuore, siamo in una catapecchia e ci pare di essere invitati a una festa di compleanno.
Andrea, nel frattempo ha messo in ordine un po’ di oggetti, raddrizzato un calendario vecchio e macilento e rovistato in una scatola piena di viti e bulloni. Ha continuato ad abbracciare tutti. Osserva con occhi attenti, chissà quali foto sta scattando.
Sarà per la semplicità disarmante degli uomini, per gli abbracci ricambiati, per gli occhi di Jorge, per il placido ondeggiare dei maiali, ma il tempo vola. Mi sento parte di una piccola comunità di fratelli. È impossibile proseguire, rimaniamo con loro tutta la mattinata. Il distacco è faticoso. Lasciamo un po’ di denaro e alcune maglie per Jorge. Non ci hanno chiesto nulla e ci ringraziamo come avessimo regalato un pezzo di cielo.
Per il resto del viaggio sentiamo un peso al cuore, sembriamo paralizzati, anche Andrea si è ritirato in profondità. Poi riaffiora come se niente fosse, una stazione di servizio come un’altra.
Impreco ma lo amo. Non so di cosa sia fatto questo amore. Credo che nessun genitore possa rispondere facilmente a questa domanda. A volte è sepolto. A volte è indifferente. A volte è solo amore per se stessi. A volte è semplicemente sentire la vita che ti attraversa: è partita da n punto, tu la prendi in consegna e la passi a qualcuno.
Una possibilità concreta, perché la vita non scherza, è che Andrea trascini la sua esistenza in qualche contenitore: refettorio, regole, farmaci. Senza relazioni vere, senza affetti veri. Immerso in una solitudine che andrà a sommarsi alla sua. Non è facile farsene una ragione. Adesso c’è ancora energia e la mente riesce a far ruotare la mia esistenza attorno alla sua. Ma il tempo non le è alleato, non ci sarà un giorno, nel futuro, in cui Andrea improvvisamente riuscirà a congiungere il suo mondo con questo mondo. Un giorno in cui, trovando me su una panchina, lui si avvicinerà di soppiatto, con quel suo sorriso, per dirmi: va bene papà, puoi andare dove vuoi adesso, me la cavo da solo.
Poi resteranno solo i pezzettini di carta, pagine sbriciolate che Andrea lascia ovunque, come una semina per indicare la via tra questa nostra esistenza e il paradiso.
Saranno i vuoti d’aria, sarà la fine del viaggio. Sarà che la vita è complicata e bella. Sarà perché noi non sappiamo e almeno immaginare, bello obrutto che sia, ci porta oltre.
Ci porta a domani.
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