giovedì 15 settembre 2016

Mio fratello rincorre i dinosauri - Giacomo Mazzariol


 

Mamma uscì dal bagno e aprì la cassapanca per prendere gli asciugamani. – Giacomo… - disse, con quella voce dolce e profonda al tempo stesso che mette su quando c’è della verità vera in quello che sta per dire, - nella vita ci sono cose che si posso governare, altre che bisogna prendere come vengono. È talmente più grande di noi la vita. È complessa, ed è misteriosa… - Mentre lo diceva aveva gli occhi che luccicavano: lei ha sempre questi occhi pieni di stelle quando parla della vita, anche oggi. – L’unica cosa che si può scegliere è amare, - disse – Amare senza condizioni.


Prima di quel giorno pensavo che il silenzio fosse assenza di rumore. Invece il silenzio è un suono, e c’è silenzio e silenzio. In quella mezz’ora, il silenzio mi parlò: mi disse che Gio aveva bisogno di me, costante bisogno di me; e io capii che ormai, senza Gio, non ci volevo più stare a questo mondo. I suoi problemi erano i miei. E i miei problemi? A quelli ci avrei pensato da solo, senza disturbare; avrei trovato una soluzione. O almeno ci speravo.


Dopo aver strisciato nel sottobosco della coscienza per due anni, una serie di domande erano alla fine arrivate a stringermi d’assedio. Come avrei fatto a vivere con le fragilità di mio fratello? Come avrei fatto ad essere felice sapendo che lui non avrebbe mai avuto una ragazza e forse nemmeno degli amici, degli amici come i miei, con cui confidarsi, con cui litigare – come avrei fatto? Sarei stato in grado di gestire la mie vita badando anche ai suoi problemi, aiutandolo a tirarsi su quando avrebbe scoperto chi era veramente? E come avrei fatto a convivere con la paura di vederlo soffrire, di vederlo morire?


Gio non ci badava. Per lui le persone che stavano ridendo di lui stavano semplicemente ridendo accanto a lui e lui le lasciava fare. Tanto lui rideva anche di più.


[..] Poi Giovanni venne a recuperarci con la voglia di giocare a qualcosa e iniziammo una sfida lunghissima a prendi-prendi che dopo un po’ sia io sia lei eravamo senza fiato. Anzi a dirla tutta, fui io il primo a dichiararmi sconfitto, e Gio, a quel punto interessato a non so cosa dall’altra parte del giardino, prese Arianna per mano e la condusse con sé. Arianna lo seguì, Vederli camminare insieme, mano nella mano, fu il sigillo della mia lotta interiore. Non era stata una lotta con occhi neri, macchi rubate, bombe a mano, rapine in banca, coltelli. Nessun colpo di scena. Era avvenuto tutto nei tredici centimetri del mio cuore, nello spazio delle sue dimensioni fisiche; i pugni erano solo quelli tirati alla porta di casa mia perché mi sentivo una merda di fratello, le bombe erano quelle che sentivo in pancia quando si abusava della parola Down e io non facevo niente; ma davanti a loro due, quel diciannove febbraio, capii che era tutto finito. Che in un modo o nell’altro ce l’avevo fatta.


[..] Gio che non capisce perché la sua ombra lo segue, e di tanto in tanto si volta di scatto a vedere se è ancora lì.


Ma quella mattina, al mercato, al tipo con la cravatta giusta eccetera, papà rispose: - Di lavoro faccio il papà. Nel tempo libero sono imprenditore di timbri, ricercatore di errori nei bilanci, dottore per l’umore delle maestre. E calciatore professionista nelle ricreazioni. E scrittore di genere…
- Che genere?
- Dramma aziendale. Hai presente i verbali?
- Maddài! Ma che stai dicendo? È un modo per dire che sei disoccupato?
Papà sorrise. – No. Per dire che sono segretario in un asilo.
- Ma figurati… - replicò lui con un sorrisetto.
- Te lo giuro.
L’altro assunse un’espressione strana, come se ancora non ci credesse. – E come ci sei finito?
- Bhè, ammetto che è stata dura. E non nascondo che ho fatto un sacco di cose prima di ottenere questo posto. Ho lavorato per delle grandi aziende, ho dovuto accettare benefit di ogni tipo. Ma alla fine ci sono riuscito.
Il vecchio compagno di scuola era sempre più incredulo.
- Erano anni che lo sognavo, anni: segretario, - e fece un movimento ad arco con la mano, come per visualizzare una targhetta affissa alla porta dell’ufficio, poi iniziò a elencare sulle dita. – Contratto a tempo indeterminato. Mensa gratuita. Bambini che raccontano barzellette. Mamme, - disse strizzando l’occhio, - mamme giovani che ti salutano ogni giorno e vengono a parlare con te per iscrivere il figlio. Fotocopie, - aggiunse, come se se lo fosse ricordato solo in quel momento, - fotocopie a due centesimi l’una. Telefonate gratuite. Vincere sempre, e dico sempre, a calcio durante le ricreazioni. Un computer così lento che nel frattempo puoi fare mille altre cose. Parcheggio solo per te. Giocattoli in disuso che porti a casa per tutti. Bicicletta dimenticata da anni che diventa la tua bicicletta aziendale. Tutte cose che, ahimè, chi fa altri lavori non sa nemmeno cosa sono.
- …
- Tu invece che lavoro fai, Tommaso…
- Veramente io sono Luca.
- Oh sì, certo, Luca. Che lavora fai, Luca?
- Avvocato.
- Urcà – disse papà, con l’aria di uno cui era stato pestato il piede. – Mi spiace. E ne hai ancora per molto?



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