Io ho
diviso me stessa in molte Liz Gilbert, che sono crollate tutte insieme, all’età
di trent’anni, una notte, sul pavimento di un bagno in una casa fuori città…
Mi fermo, appoggiata a una balaustra, per
guardare il tramonto, e comincio a pensare, i miei pensieri diventano
ossessivi, ed ecco che i miei due nemici, Depressione e Solitudine, mi
catturano.
Mi arrivano addosso muti e minacciosi come
agenti della Pinkerton e mi affiancano: Depressione a sinistra, Solitudine a
destra. Non serve che mi mostrino il distintivo, li conosco perfettamente, sono
anni ormai che giochiamo come il gatto con il topo.
Sono sorpresa, tuttavia, che siano qui, al
tramonto, in questo elegante giardino italiano.
"Come mi avete trovata? Chi vi ha detto
che ero a Roma?"
Depressione, il più aggressivo dei due, abbaia:
"Che succede, non sei felice di vederci?"
"Andate via!"
Solitudine, lo sbirro sensibile, corregge il
tiro: "Chiedo scusa, signora, ma devo seguirla per tutto il viaggio. È il
mio mestiere".
"Preferirei che mi lasciaste in
pace". Lui si stringe nelle spalle e mi viene più vicino.
Mi perquisiscono. Mi svuotano le tasche di
qualunque gioia sia riuscita a portarmi fin qui.
Depressione confisca anche la mia identità, come
al solito. Solitudine dà il via alle domande, ed è una cosa che mi fa gran
paura, perchè so che è in grado di andar avanti per ore.
È cortese, ma implacabile, e finisce sempre
col farmi cadere in contraddizione.
Mi domanda se ho qualche motivo per esser felice.
Mi domanda perchè stasera sono di nuovo sola. Mi domanda (per la centesima volta)
perchè non riesco a far durare le mie relazioni sentimentali, perchè ho mandato
a monte il mio matrimonio, perchè ho rovinato la mia storia con David.
Mi domanda dov'ero la sera che ho compiuto
trent'anni e perché da allora tutto è andato male. Mi domanda perchè non so
organizzarmi una vita normale, perchè non abito in una bella casa e non allevo
dei bei bambini, come una qualsiasi rispettabile donna della mia età. Mi
domanda, a muso duro, perchè dopo aver combinato tanti pasticci nella vita, penso
di meritarmi una vacanza a Roma. Mi domanda se per andare a zonzo per l' Italia
come una studentessa in vacanza mi renderà felice. Mi domanda dove passerò la
vecchiaia se continuerò così.
Torno a casa,sperando di seminarli,ma loro
continuano a tallonarmi.
Depressione tiene una mano ben ferma sulla mia
spalla e Solitudine non smette di tartassarmi con le sue domande.
Non voglio cenare, non sopporto che stiano a
guardarmi mentre mangio; non voglio nemmeno che salgano le scale della casa
dove abito, ma conosco Depressione, so che ha in tasca un manganello e nessuno
può fermarlo.
"Perchè sei venuto? Non è giusto!" gli
dico. "Ho già pagato. Ho scontato la mia condanna a New York."
Ma Depressione, con il suo sorriso cupo, si
siede sulla mia poltrona preferita, appoggia i piedi sul tavolo e si accende un
sigaro, riempiendo la stanza di un fumo rivoltante.
Solitudine si guarda attorno, con un sospiro e
si stende sul letto, sotto le coperte, tutto vestito, scarpe comprese. Dovrò
dormire con lui anche stanotte
È difficile stare immobili per molte ore a
meditare si ti fa male un fianco e non riesci a contemplare la tua divinità
interiore perché se troppo occupato a pensare: «Ahi-ahi, che dolore…».
Che tutto si risolva lì. Non siamo capaci di
riconoscere in noi l’elemento divino. Non ci rendiamo conto che, da qualche
parte in ciascuno di noi, esiste davvero un Io supremo in un perenne stato di
pace. Quell’Io supremo è la nostra vera identità, universale e divina. Prima di
capirlo, dicono gli yogi, si vive
nella disperazione. «Porti Dio, dentro di te, sciagurato, e non lo sai».
«Tutto quello che dobbiamo fare» ha scritto
Sant’Agostino, piuttosto yogicamente,
«è riportare in salute l’occhio del cuore, perché grazie a quello si può vedere
Dio».
Chiunque abbia raggiunto uno stato di
illuminata e permanente beatitudine è un grande yogi. Un guru è un grande yogi,
in grado di trasmettere questa beatitudine agli altri. La parola guru è composta da due sillabe
sanscrite. La prima significa «tenebre», l’altra «luce». Dalle tenebre alle
luce. Quello che passa dal maestro al discepolo è il mantravirya, la «potenza della coscienza illuminata». Ci si rivolge
a un guru, cioè, non solo per ricevere lezioni, come da qualunque maestro, ma
per ricevere da lui il suo stesso stato interiore. […] Una volta sono andata ad
ascoltare il grande monaco, poeta e pacifista vietnamita Thich Nhat Hanh, che
teneva una conferenza a New York. Era una tipica, nevrotica serata
infrasettimanale in città, la folla spingeva e si faceva largo per entrare
nell’auditorium, e l’aria stessa si caricava di un’urgenza esasperante. Poi il
monaco è salito sul palco. È rimasto per molto tempo seduto immobile prima di
cominciare a parlare, e il pubblico - lo si percepiva con chiarezza - è stato colonizzato dalla sua immobilità, una
fila di frenetici newyorkesi dopo l’altra. Nella sala non si sentiva più volare
una mosca. In dieci minuti, questi piccolo vietnamita aveva saputo attirarci
tutti nel suo silenzio. O forse è più preciso dire che ci aveva guidati tutti
nel nostro silenzio, nella pace che
ciascuno di noi possiede interiormente, ma che nessuno aveva ancora scoperto o
reclamato.
La meditazione rappresenta sia l’ancora che le
ali dello yoga. La meditazione è la via.
C’è una differenza fra meditazione e preghiera, anche se ambedue cercano la
comunione con il divino. Ho sentito dire che la preghiera è l’atto di parlare
con Dio, mentre la meditazione è l’atto di ascoltare.
Come la maggior parte degli umanoidi, sono
oppressa da quella che i buddhisti chiamano «scimmia mentale» - i pensieri
dondolano da un ramo all’altro, fermandosi solo per grattarsi, sputare o
ululare. Dal lontano passato al futuro imperscrutabile, la mia mente oscilla
senza sosta, soffermandosi su decine e decine di idee al minuto, indisciplinata
e fuori controllo. Di per sé non sarebbe grave, il problema è la tensione
emotiva che si accompagna al pensare. I pensieri felici mi rendono felice, ma -
oplà! - ecco che con un salto vado a finire in un pensiero angosciante, che mi
rovina il buon umore; oppure è il ricordo di un momento di rabbia che mi
irrita, così mi scaldo e mi saltano i nervi, o ancora le mia mente decide che è
il momento giusto per commiserarsi, ed ecco puntualissimo il senso di
solitudine. Dopotutto, tu sei quello che pensi. Le tue emozioni sono schiave
dei tuoi pensieri, e tu sei schiavo delle tue emozioni.
L’altro problema di questo continuo dondolarsi
sulle liane della mente è che tu non sei mai dove sei. Stai sempre scavando nel
passato, o indagando nel futuro, ma raramente sei fermo nell’attimo presente.
La mia guru insegna la meditazione con l‘aiuto
di un mantra, parole sacre o sillabe su cui concentrarsi ripetendole
all’infinito. Il mantra ha un duplice funzione. In primo luogo, tiene la mente
occupata. È come se tu avessi detto: «Sposta questi bottoni, uno alla volta e
forma un nuovo mucchio». Per lei è un ordine semplice da eseguire. Se l’avessi
mollata in un angolo e le avessi detto di non muoversi, l’avrei messa in
difficoltà. Il secondo scopo del mantra è quello di traghettarti in un altro
stato, come su una barca a remi, attraverso le onde agitate della mente. Ogni
volta che la tua attenzione viene attirata in un gorgo del pensiero, fa’ di
tutto per ritornare al mantra, risalire sulla barca e continuare a navigare. I
grandi mantra in sanscrito hanno poteri inimmaginabili: se riesci a non perdere
la tua barca, verrai traghettato fino alle sponde del divino.
A questo punto, c’è una pausa di otto secondi.
I miei pensieri si fermano, Ma subito dopo…
mente:
Sei arrabbiata con me?
… infine, con un respiro strozzato, come se
uscissi dall’acqua per riprendere fiato, concedo la vittoria alla mia mente. I
miei occhi si spalancano e io cedo.
Scoppio in lacrime. Avverto una pressione insostenibile. Non so come fare. Non
posso mica uscire ogni giorno di corsa dal tempio, piangendo, dopo appena
quattordici minuti di meditazione?
Questa mattina, invece di combattere, ho
rinunciato. Mi sono lasciata cadere contro il muro alle mie spalle, facendomi
male alla schiena. Non avevo più forza, la mia mente vacillava. Sono crollata
come un ponte che si disintegra. Ho scacciato
il mantra dalla cima della mia testa (dove aveva continuato a premere su
di me come un’incudine invisibile) e l’ho messo sul pavimento, al mio fianco.
Poi ho detto a Dio: «Mi dispiace ma oggi non potevo arrivare più vicino a te di
così».
[…] Per i quaranta minuti successivi al mio
cedimento, stamattina, ho cercato di stare in silenzio più che ho potuto,
intrappolata in quella sala di meditazione, prigioniera della mia stessa
vergogna e della mia inettitudine, guardando i devoti intorno a me seduti in
posizioni perfette, con gli occhi perfettamente chiusi, con le facce
compiaciute che emanavano una calma perfetta, mentre sicuramente trasportavano
se stessi in un perfetto paradiso.
Ho pensato a quella spaventosa macchina
elaboratrice di pensieri e divoratrice dell’anima che è il mio cervello, e mi
sono domandata come diavolo sarei mai riuscita a controllarla.
«è
solo il tuo ego, che cerca di mantenere il controllo. Lui continua a farti
sentire divisa, ti trasmette un senso di dualità, cera di convincerti che hai
qualcosa che non va, che sei disperata e sola, invece che intera e completa».
«Ma allora a che mi serve il mio ego?»
«Non deve servirti
proprio a nulla. Il compito del tuo ego non è servire te. Il suo scopo è
mantenere il potere. E in questo momento, il tuo ego è spaventato a morte
perchè sta per essere ridimensionato. Segui il tuo cammino spirituale, piccola,
e quel ragazzaccio avrà i giorni contati. Lui sarà fuori gioco, e il tuo cuore
potrà cominciare a prendere le decisioni. Il tuo ego lotta per sopravvivere
giocando con la tua mente, cercando di afferrare la sua autorità, tentando di
metterti in un angolo, in un recinto, lontana dal resto dell’universo. Non
ascoltarlo.»
L’altro giorno un monaco mi ha detto: «Il
posto dove la mente riposa è il cuore. La mente sente tutto il giorno frastuono
di campane, rumore e discussioni, e invece vuole solo tranquillità. Il luogo dove
la mente troverà pace è il silenzio del cuore. È là che hai bisogno di andare.»
«Ma lo amo.»
«Allora amalo.»
«E mi manca.»
«E allora che ti manchi. Mandagli amore e luce
ogni volta che pensi a lui, e poi lascialo perdere. Hai paura di mollare gli
ultimi pezzi di David, perché allora sarai veramente sola, e Liz Gilbert ha
paura di quello che accadrà se sarà veramente sola. Ma devi capire che questo:
se sgomberi lo spazio mentale che stai dedicando al pensiero ossessivo di
quest’uomo, otterrai un vuoto – una possibile apertura. E indovina che cosa farà l’universovquando troverà
quell’apertura? Ci si precipiterà dentro – Dio si precipiterà dentro e ti
riempirà di più amore di quanto avresti mai potuto sognare. Smetti di usare
David per bloccare quella porta. Dimenticalo.»
La vita, se la insegui con troppo accanimento,
finisce per portarti alla morte.
Siediti tranquilla e sospendi questa tua
incessante partecipazione. Guarda, gli uccelli non precipitano dal cielo, gli
alberi non avvizziscono e non muoiono, i fiumi non scorrono rossi di sangue. La
vita continua ad andare avanti. […] Perché sei così sicura che la tua
microgestione del mondo sia essenziale? Perché non lasci perdere?
Ascolto, e questo argomento mi affascina. Ci
credo, intellettualmente. Davvero. Ma poi mi domando: se metto a tacere il mio
inquieto desiderare, il mio sovraeccitato fervore e questa mia natura
stupidamente affamata – che cosa farò allora della mia energia?
Ecco la risposta della guru:
Cerca
Dio. Cerca Dio come un uomo con la testa in fiamme cerca l’acqua.
L’essere umano non è una marionetta in mano
agli dei, né è completamente artefice del proprio destino; è un po’ le due cose
insieme. Siamo come acrobati in bilico tra due cavalli che corrono fianco a
fianco - un piede sul cavallo chiamato Fato, l'altro sul cavallo chiamato
Libero Arbitrio. E la domanda che dobbiamo porci ogni giorno è: qual è l'uno e
qual è l'altro? Di quale cavallo devo smettermi di preoccuparmi, perchè
comunque non è controllabile, e su quale devo concentrarmi, per dirigermi verso
la meta?
«Senza Fondo, devi imparare a scegliere i tuoi
pensieri, proprio come ogni giorno scegli i vestiti da mettere. È in tuo
potere. Se ti piace tanto avere il dominio della tua vita, lavora sulla mente.
È l’unica cosa su cui puoi tentare di esercitare un controllo. Il resto
lascialo perdere. Se non domini i tuoi pensieri, sarai sempre nei guai.»
Richard sostiene che dobbiamo ammettere
l’esistenza dei pensieri negativi, capire da dove arrivano e perché, e poi -
con magnanimità e coraggio - liquidarli. Lasciarli andare è un sacrificio:
significa rinunciare a vecchie abitudini, e rassicuranti rancori e agli altri
atteggiamenti che hanno fatto di noi i protagonisti di familiari vignette.
Un porto è un rifugio, un luogo dove si entra.
Mi sono raffigurata il porto della mia mente - un po’ malconcio, vessato dalle
tempeste, ma accogliente e in buona posizione. Il mio porto è una baia
profonda, l’unico accesso all’isola del mio Io (una giovane isola vulcanica,
d’accordo, ma fertile e rigogliosa). Sull’isola è stata combattuta qualche
guerra, è vero, ma adesso ci stiamo impegnando per la pace, perché il nuovo
capo del governo (cioè io) ha introdotto drastiche misure di protezione. Adesso - e fate in modo che la voce circoli per i sette mari -
il permesso di entrare nel porto viene concesso solo in rare occasioni. Le navi
appestate cariche di pensieri offensivi, le navi negriere cariche di pensieri
sottomessi, le navi da guerra cariche di pensieri esplosivi - tutte saranno
respinte. E anche i pensieri che si comportano come esuli arrabbiati, o
contestatori, o ammutinati, o prostitute, o lenoni, o clandestini sediziosi
-anche loro sono banditi. Persino i missionari saranno interrogati. La loro
sincerità sarà messa alla prova. Il mio è un porto pacifico, la via d’accesso a
un’isola bella e orgogliosa, che solo ora sta cominciando a coltivare la
tranquillità. Se osserverete le nuove leggi, cari pensieri, sarete benvenuti
nella mia mente - altrimenti, vi ributterò nel mare da cui venite. È la mia
missione, e lo sarà per sempre.
«Per me il matrimonio è come un’operazione
chirurgica che cuce due persone insieme e il divorzio e una specie di
amputazione che impiega molto tempo a guarire. Più a lungo sei stato sposato, o
più cruenta è stata l’amputazione, più è difficile guarire». Una buona
spiegazione per le sensazioni spiacevoli del mio «dopo divorzio», e per la
presenza di quell’arto fantasma che va a sbattere dappertutto e fa cadere gli
oggetti dagli scaffali.
Ho avvertito la brezza notturna sulle piante
dei piedi nudi. Stare dritti a testa in giù non è un esercizio adatto a
un'incorporea e fredda anima azzurra, ma a un essere umano sì. Abbiamo le mani;
possiamo poggiare il peso sui palmi delle mani e sollevare le gambe in aria - è
un nostro privilegio. E' la gioia di un corpo mortale. Ed è per questo che Dio
ha bisogno di noi. Perché a Dio piace sentire le cose attraverso le nostre
mani.
« […] Sembri un’altra persona rispetto a
quando ti ho conosciuta, qualche mese fa. È come se avessi butta via un po’
della tristezza che ti portavi dietro.»
«In questi giorni mi sento veramente felice,
Richard.»
«Bene, allora ricordati che tutta la tua
tristezza ti aspetterà all’uscita, nel caso tu volessi riprenderla quando te ne
andrai di qui.»
[…] Se c’è una sacra verità nello yoga, è
racchiusa in queste parole. Dio vive dentro di te essendo te stesso, esattamente come sei. A Dio non interessa
guardarti mentre interpreti un ruolo, mentre ti esibisci per adeguarti alla
stramba idea che ti sei fatto di «comportamento spirituale».
[…] Saranno guidati da una monaco di
cinquant’anni, una donna eccezionale, di cui ogni gesto e ogni parola sono
l’incarnazione della pietà, ma hanno ugualmente paura perché - per quando
amorevole possa essere la loro guida -
non può accompagnarli dove devono veramente andare.
Sean, il mio mistico produttore di
latticini irlandese, me lo ha spiegato
così: «Se immagini che l’universo sia la ruota di un grande motore che gira»ha
detto, «capisci subito che devi stare vicino al centro - proprio nel mozzo
della ruota - e non sul bordo, dove il movimento è frenetico e puoi esaurire le
forze e diventare pazzo. Il centro è calma - il centro è il tuo cuore. È lì che
Dio vive. Smetti di cercare risposte nel mondo. Continua a tornare al centro, e
troverai la pace».
Gli essere umani sono nati, come la mia guru
ha spiegato tante volte, con eguale possibilità di contrarsi o di espandersi.
Gli ingredienti dell’oscurità e della luce sono presenti allo stesso modo in
ciascuno di noi e dipende dall’individuo (o dalla famiglia, o dalla società)
decidere se si vorrà sviluppare la virtù o il male. La follia del nostro
pianeta è in gran parte il prodotto delle difficoltà che l’essere umano
incontra nella ricerca di un sano equilibrio con se stesso. La pazzia (tanto
individuale quanto collettiva) è il risultato di questi insuccessi.
«Ma che cosa possiamo fare contro la follia
del mondo?»
«Niente» Ketut ha riso della mia domanda ma
con una nota di gentilezza. «Così è la natura del mondo. Devi preoccuparti solo
di tua follia – comincia a cercare la
pace in te.»
Ketut mi ha spiegato che i balinesi credono
che ciascuno di noi alla nascita sia accompagnato da quattro fratelli
invisibili che vengono al mondo insieme a noi e ci seguono e ci proteggono per
tutta la via. Quando il bambino è nel grembo materno, i suoi quattro fratelli
sono lì con lui - sono rappresentati dalla placenta, dal liquido amniotico, dal
cordone ombelicale e dalla sostanza gialla e grassa che protegge la pelle del
bambino prima che nasca. Quando il bambino nasce, i genitori raccolgono quanto
più possono di queste sostanze estranee, le mettono nel guscio di una noce di
cocco e le seppelliscono davanti alla porta di casa. Secondo i balinesi questa
noce di cocco sepolta è il sacro luogo del riposo dei quattro fratelli non
nati, da venerare per sempre come un tempio.
Al bambino, appena ha coscienza, viene detto
che ha quattro fratelli che lo seguono nel mondo, ovunque vada, e che lo
proteggeranno sempre. I fratelli incarnano le quattro virtù di cui l’uomo ha
bisogno per essere felice: l’intelligenza, l’amicizia, la forza e (questa mi
piace) a poesia. I fratelli possono
essere invocati in qualsiasi momento e sono in grado di portare salvezza e
assistenza in ogni situazione. Al momento della morte i tuoi quattro fratelli
invisibili prendono la tua anima e la portano in paradiso.
È facile pregare quando si è angosciati, è più
difficile continuare a farlo quando la crisi è passata, e aiutare a propria
anima a tenere stretti i buoni risultati ottenuti.
[…] tutti i problemi e le sofferenze di questo
mondo sono causati da persone infelici. E questo non riguarda solo personaggi
come Hitler o Stanlin, ma anche la nostra piccola sfera personale.
Spazzare via l’infelicità ti aiuta a non
seccare gli altri. A non essere di ostacolo né a te stesso né al tuo prossimo.
«Mi stai dicendo che il paradiso e l’inferno
sono la stessa cosa?»
«Uguali-uguali» ha detto «e se destinazione è
uguale, meglio scegliere il viaggio più bello, no?»
[...] Per qualche ragione che non capisco,
provo per te quello che provavo per i miei figli quando erano piccoli, capivo
che non era compito loro amarmi, ma compito mio amare loro. Tu puoi decidere di
sentire quello che ti pare, ma io ti amo e ti amerò sempre. Anche se non ci
dovessimo vedere mai più, tu mi hai fatto rinascere, e te ne sono grato.
Naturalmente, mi piacerebbe passare la mia vita con te, anche se non so bene
che tipo di vita potrei offriti a Bali».
Non ho ancora imparato com’è inutile
preoccuparsi?
[...] La bambina era diventata una di noi. Un
essere umano. Con tutti i rischi e le emozioni che quella stupefacente
incarnazione avrebbe implicato.
La mia mente era un campo di battaglia, pieno
di demoni in conflitto. Ricordo che, prendendo la decisione di passare dieci
giorni da sola in silenzio, in mezzo al nulla, ho detto alle forse che
lottavano in me e mi facevano sentire divisa: «Adesso siamo qui insieme, non
c’è nessun altro. Dobbiamo trovare una soluzione, un punto di accordo, o prima
o poi moriremo tutti».
[...] Poi ho detto alla mia mente: «Adesso
mostrami la tua rabbia». Uno per uno, ogni motivo di rabbia è apparso davanti a
me e si è fatto riconoscere. Ogni ingiustizia, ogni tradimento, ogni perdita.
Li ho visti tutti, uno per uno, e ne ho ammesso l’esistenza. Ho sentito ogni
accesso della mia rabbia, come se si verificasse in quel momento per la prima
volta, e poi ho detto: «Adesso vieni nel mio cuore. Potrai riposare. Adesso è
un posto sicuro. È finita. Ti amo». [...]
A quel punto è cominciata la parte più
difficile. «Mostrami i tuoi motivi di vergogna» ho chiesto alla mia mente. Dio
mio, non si possono immaginare gli orrori che ho visto. Una patetica sfilata di
tutte le mie mancanze, le mie bugie, il mio egoismo, la mia gelosia, la mia
arroganza. Ma per nessuno di questi dimostranti ho battuto ciglio. «Mostrami il
peggio di te» ho insistito. Quando ho tentato di invitare i deplorevoli motivi
di vergogna nel mio cuore, hanno esitato sulla soglia: «No - non crediamo che
tu ci voglia lì dentro… non sai che cosa abbiamo fatto».
E io dicevo: «Io vi voglio. Persino voi. Vi voglio.
Anche voi siete i benvenuti. Va tutto bene, siete perdonati. Siete parte di me.
Adesso potete riposare. È finita».
I saggi yogi
dicono che tutto il dolore della vita umana è causato dalla parole, così come
tutta la gioia. Creiamo parole per definire la nostra esperienza, e quelle
parole portano emozioni ausiliarie, che ci tirano a destra e sinistra, come
cani al guinzaglio. Rimaniamo sedotti dai nostri stessi mantra. (Sono un fallimento…
Sono sola… Sono un fallimento… Sono sola). Io ero n esempio perfetto di
questa sottomissione alle parole. Smettere di parlar per un periodo significa
cercare di togliere il potere alle parole, smettere di lasciarci soffocare da
loro, liberarci dai nostri opprimenti mantra.
[...] E forse era la donna realizzata di
adesso che quattro anni fa aleggiava sopra la giovane ragazza
sposata,singhiozzante sul pavimento del bagno, e le mormorava amorevolmente
nell’orecchio: «Torna a letto, Liz…», sapendo che tutto sarebbe andato bene,
che la vita ci avrebbe alla fine portate qui
insieme. Proprio qui, dove da sempre la aspettavo, nella pace, nella serenità,
perché si unisse a me.
Lo ammetto è un finale quasi ridicolo per la
mia storia, un lieto fine da fiaba, una pagina che sembra presa dal sogno di
una casalinga (o da un sogno mio di qualche anno fa). Ma quello che mi preserva
dalla completa dissoluzione nel luccichio delle fiabe è un’innegabile verità:
io non sono stata salvata da un principe; sono stata io stessa l’artefice del
mio salvataggio.
Penso alla donna che sono diventata, alla vita
che sto vivendo, e a quanto ho sempre voluto essere questa persona e vivere
questa vita, libera dall’obbligo di fingere di essere un’altra.
[...] Forse, tuttavia, dovremmo rinunciare a
cercare di sdebitarci con chi ci ha aiutati nella vita. Forse sarebbe più
ragionevole arrendersi davanti alla miracolosa, illimitata grandezza della
generosità umana e limitarsi a dire solo grazie, eternamente, sinceramente,
finché abbiamo voce.
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