mercoledì 5 ottobre 2016

Mangia Prega Ama - Elizabeth Gilbert




Io ho diviso me stessa in molte Liz Gilbert, che sono crollate tutte insieme, all’età di trent’anni, una notte, sul pavimento di un bagno in una casa fuori città…


Mi fermo, appoggiata a una balaustra, per guardare il tramonto, e comincio a pensare, i miei pensieri diventano ossessivi, ed ecco che i miei due nemici, Depressione e Solitudine, mi catturano.
Mi arrivano addosso muti e minacciosi come agenti della Pinkerton e mi affiancano: Depressione a sinistra, Solitudine a destra. Non serve che mi mostrino il distintivo, li conosco perfettamente, sono anni ormai che giochiamo come il gatto con il topo.
Sono sorpresa, tuttavia, che siano qui, al tramonto, in questo elegante giardino italiano.
"Come mi avete trovata? Chi vi ha detto che ero a Roma?"
Depressione, il più aggressivo dei due, abbaia: "Che succede, non sei felice di vederci?"
"Andate via!"
Solitudine, lo sbirro sensibile, corregge il tiro: "Chiedo scusa, signora, ma devo seguirla per tutto il viaggio. È il mio mestiere".
"Preferirei che mi lasciaste in pace". Lui si stringe nelle spalle e mi viene più vicino.
Mi perquisiscono. Mi svuotano le tasche di qualunque gioia sia riuscita a portarmi fin qui.
Depressione confisca anche la mia identità, come al solito. Solitudine dà il via alle domande, ed è una cosa che mi fa gran paura, perchè so che è in grado di andar avanti per ore.
È cortese, ma implacabile, e finisce sempre col farmi cadere in contraddizione.
Mi domanda se ho qualche motivo per esser felice. Mi domanda perchè stasera sono di nuovo sola. Mi domanda (per la centesima volta) perchè non riesco a far durare le mie relazioni sentimentali, perchè ho mandato a monte il mio matrimonio, perchè ho rovinato la mia storia con David.
Mi domanda dov'ero la sera che ho compiuto trent'anni e perché da allora tutto è andato male. Mi domanda perchè non so organizzarmi una vita normale, perchè non abito in una bella casa e non allevo dei bei bambini, come una qualsiasi rispettabile donna della mia età. Mi domanda, a muso duro, perchè dopo aver combinato tanti pasticci nella vita, penso di meritarmi una vacanza a Roma. Mi domanda se per andare a zonzo per l' Italia come una studentessa in vacanza mi renderà felice. Mi domanda dove passerò la vecchiaia se continuerò così.
Torno a casa,sperando di seminarli,ma loro continuano a tallonarmi.
Depressione tiene una mano ben ferma sulla mia spalla e Solitudine non smette di tartassarmi con le sue domande.


Non voglio cenare, non sopporto che stiano a guardarmi mentre mangio; non voglio nemmeno che salgano le scale della casa dove abito, ma conosco Depressione, so che ha in tasca un manganello e nessuno può fermarlo.
"Perchè sei venuto? Non è giusto!" gli dico. "Ho già pagato. Ho scontato la mia condanna a New York."
Ma Depressione, con il suo sorriso cupo, si siede sulla mia poltrona preferita, appoggia i piedi sul tavolo e si accende un sigaro, riempiendo la stanza di un fumo rivoltante.
Solitudine si guarda attorno, con un sospiro e si stende sul letto, sotto le coperte, tutto vestito, scarpe comprese. Dovrò dormire con lui anche stanotte


È difficile stare immobili per molte ore a meditare si ti fa male un fianco e non riesci a contemplare la tua divinità interiore perché se troppo occupato a pensare: «Ahi-ahi, che dolore…».


Che tutto si risolva lì. Non siamo capaci di riconoscere in noi l’elemento divino. Non ci rendiamo conto che, da qualche parte in ciascuno di noi, esiste davvero un Io supremo in un perenne stato di pace. Quell’Io supremo è la nostra vera identità, universale e divina. Prima di capirlo, dicono gli yogi, si vive nella disperazione. «Porti Dio, dentro di te, sciagurato, e non lo sai».


«Tutto quello che dobbiamo fare» ha scritto Sant’Agostino, piuttosto yogicamente, «è riportare in salute l’occhio del cuore, perché grazie a quello si può vedere Dio».


Chiunque abbia raggiunto uno stato di illuminata e permanente beatitudine è un grande yogi. Un guru è un grande yogi, in grado di trasmettere questa beatitudine agli altri. La parola guru è composta da due sillabe sanscrite. La prima significa «tenebre», l’altra «luce». Dalle tenebre alle luce. Quello che passa dal maestro al discepolo è il mantravirya, la «potenza della coscienza illuminata». Ci si rivolge a un guru, cioè, non solo per ricevere lezioni, come da qualunque maestro, ma per ricevere da lui il suo stesso stato interiore. […] Una volta sono andata ad ascoltare il grande monaco, poeta e pacifista vietnamita Thich Nhat Hanh, che teneva una conferenza a New York. Era una tipica, nevrotica serata infrasettimanale in città, la folla spingeva e si faceva largo per entrare nell’auditorium, e l’aria stessa si caricava di un’urgenza esasperante. Poi il monaco è salito sul palco. È rimasto per molto tempo seduto immobile prima di cominciare a parlare, e il pubblico - lo si percepiva con chiarezza - è stato colonizzato dalla sua immobilità, una fila di frenetici newyorkesi dopo l’altra. Nella sala non si sentiva più volare una mosca. In dieci minuti, questi piccolo vietnamita aveva saputo attirarci tutti nel suo silenzio. O forse è più preciso dire che ci aveva guidati tutti nel nostro silenzio, nella pace che ciascuno di noi possiede interiormente, ma che nessuno aveva ancora scoperto o reclamato.


La meditazione rappresenta sia l’ancora che le ali dello yoga. La meditazione è la via. C’è una differenza fra meditazione e preghiera, anche se ambedue cercano la comunione con il divino. Ho sentito dire che la preghiera è l’atto di parlare con Dio, mentre la meditazione è l’atto di ascoltare.


Come la maggior parte degli umanoidi, sono oppressa da quella che i buddhisti chiamano «scimmia mentale» - i pensieri dondolano da un ramo all’altro, fermandosi solo per grattarsi, sputare o ululare. Dal lontano passato al futuro imperscrutabile, la mia mente oscilla senza sosta, soffermandosi su decine e decine di idee al minuto, indisciplinata e fuori controllo. Di per sé non sarebbe grave, il problema è la tensione emotiva che si accompagna al pensare. I pensieri felici mi rendono felice, ma - oplà! - ecco che con un salto vado a finire in un pensiero angosciante, che mi rovina il buon umore; oppure è il ricordo di un momento di rabbia che mi irrita, così mi scaldo e mi saltano i nervi, o ancora le mia mente decide che è il momento giusto per commiserarsi, ed ecco puntualissimo il senso di solitudine. Dopotutto, tu sei quello che pensi. Le tue emozioni sono schiave dei tuoi pensieri, e tu sei schiavo delle tue emozioni.
L’altro problema di questo continuo dondolarsi sulle liane della mente è che tu non sei mai dove sei. Stai sempre scavando nel passato, o indagando nel futuro, ma raramente sei fermo nell’attimo presente.


La mia guru insegna la meditazione con l‘aiuto di un mantra, parole sacre o sillabe su cui concentrarsi ripetendole all’infinito. Il mantra ha un duplice funzione. In primo luogo, tiene la mente occupata. È come se tu avessi detto: «Sposta questi bottoni, uno alla volta e forma un nuovo mucchio». Per lei è un ordine semplice da eseguire. Se l’avessi mollata in un angolo e le avessi detto di non muoversi, l’avrei messa in difficoltà. Il secondo scopo del mantra è quello di traghettarti in un altro stato, come su una barca a remi, attraverso le onde agitate della mente. Ogni volta che la tua attenzione viene attirata in un gorgo del pensiero, fa’ di tutto per ritornare al mantra, risalire sulla barca e continuare a navigare. I grandi mantra in sanscrito hanno poteri inimmaginabili: se riesci a non perdere la tua barca, verrai traghettato fino alle sponde del divino.


A questo punto, c’è una pausa di otto secondi. I miei pensieri si fermano, Ma subito dopo…
mente: Sei arrabbiata con me?
… infine, con un respiro strozzato, come se uscissi dall’acqua per riprendere fiato, concedo la vittoria alla mia mente. I miei occhi si spalancano e io cedo. Scoppio in lacrime. Avverto una pressione insostenibile. Non so come fare. Non posso mica uscire ogni giorno di corsa dal tempio, piangendo, dopo appena quattordici minuti di meditazione?
Questa mattina, invece di combattere, ho rinunciato. Mi sono lasciata cadere contro il muro alle mie spalle, facendomi male alla schiena. Non avevo più forza, la mia mente vacillava. Sono crollata come un ponte che si disintegra. Ho scacciato  il mantra dalla cima della mia testa (dove aveva continuato a premere su di me come un’incudine invisibile) e l’ho messo sul pavimento, al mio fianco. Poi ho detto a Dio: «Mi dispiace ma oggi non potevo arrivare più vicino a te di così».


[…] Per i quaranta minuti successivi al mio cedimento, stamattina, ho cercato di stare in silenzio più che ho potuto, intrappolata in quella sala di meditazione, prigioniera della mia stessa vergogna e della mia inettitudine, guardando i devoti intorno a me seduti in posizioni perfette, con gli occhi perfettamente chiusi, con le facce compiaciute che emanavano una calma perfetta, mentre sicuramente trasportavano se stessi in un perfetto paradiso.


Ho pensato a quella spaventosa macchina elaboratrice di pensieri e divoratrice dell’anima che è il mio cervello, e mi sono domandata come diavolo sarei mai riuscita a controllarla.


«è solo il tuo ego, che cerca di mantenere il controllo. Lui continua a farti sentire divisa, ti trasmette un senso di dualità, cera di convincerti che hai qualcosa che non va, che sei disperata e sola, invece che intera e completa».
«Ma allora a che mi serve il mio ego?»
«Non deve servirti proprio a nulla. Il compito del tuo ego non è servire te. Il suo scopo è mantenere il potere. E in questo momento, il tuo ego è spaventato a morte perchè sta per essere ridimensionato. Segui il tuo cammino spirituale, piccola, e quel ragazzaccio avrà i giorni contati. Lui sarà fuori gioco, e il tuo cuore potrà cominciare a prendere le decisioni. Il tuo ego lotta per sopravvivere giocando con la tua mente, cercando di afferrare la sua autorità, tentando di metterti in un angolo, in un recinto, lontana dal resto dell’universo. Non ascoltarlo.»


L’altro giorno un monaco mi ha detto: «Il posto dove la mente riposa è il cuore. La mente sente tutto il giorno frastuono di campane, rumore e discussioni, e invece vuole solo tranquillità. Il luogo dove la mente troverà pace è il silenzio del cuore. È là che hai bisogno di andare.»


«Ma lo amo.»
«Allora amalo.»
«E mi manca.»
«E allora che ti manchi. Mandagli amore e luce ogni volta che pensi a lui, e poi lascialo perdere. Hai paura di mollare gli ultimi pezzi di David, perché allora sarai veramente sola, e Liz Gilbert ha paura di quello che accadrà se sarà veramente sola. Ma devi capire che questo: se sgomberi lo spazio mentale che stai dedicando al pensiero ossessivo di quest’uomo, otterrai un vuoto – una possibile apertura. E indovina che cosa farà l’universovquando troverà quell’apertura? Ci si precipiterà dentro – Dio si precipiterà dentro e ti riempirà di più amore di quanto avresti mai potuto sognare. Smetti di usare David per bloccare quella porta. Dimenticalo.»


La vita, se la insegui con troppo accanimento, finisce per portarti alla morte.


Siediti tranquilla e sospendi questa tua incessante partecipazione. Guarda, gli uccelli non precipitano dal cielo, gli alberi non avvizziscono e non muoiono, i fiumi non scorrono rossi di sangue. La vita continua ad andare avanti. […] Perché sei così sicura che la tua microgestione del mondo sia essenziale? Perché non lasci perdere?
Ascolto, e questo argomento mi affascina. Ci credo, intellettualmente. Davvero. Ma poi mi domando: se metto a tacere il mio inquieto desiderare, il mio sovraeccitato fervore e questa mia natura stupidamente affamata – che cosa farò allora della mia energia?
Ecco la risposta della guru:
Cerca Dio. Cerca Dio come un uomo con la testa in fiamme cerca l’acqua.


L’essere umano non è una marionetta in mano agli dei, né è completamente artefice del proprio destino; è un po’ le due cose insieme. Siamo come acrobati in bilico tra due cavalli che corrono fianco a fianco - un piede sul cavallo chiamato Fato, l'altro sul cavallo chiamato Libero Arbitrio. E la domanda che dobbiamo porci ogni giorno è: qual è l'uno e qual è l'altro? Di quale cavallo devo smettermi di preoccuparmi, perchè comunque non è controllabile, e su quale devo concentrarmi, per dirigermi verso la meta?


«Senza Fondo, devi imparare a scegliere i tuoi pensieri, proprio come ogni giorno scegli i vestiti da mettere. È in tuo potere. Se ti piace tanto avere il dominio della tua vita, lavora sulla mente. È l’unica cosa su cui puoi tentare di esercitare un controllo. Il resto lascialo perdere. Se non domini i tuoi pensieri, sarai sempre nei guai.»


Richard sostiene che dobbiamo ammettere l’esistenza dei pensieri negativi, capire da dove arrivano e perché, e poi - con magnanimità e coraggio - liquidarli. Lasciarli andare è un sacrificio: significa rinunciare a vecchie abitudini, e rassicuranti rancori e agli altri atteggiamenti che hanno fatto di noi i protagonisti di familiari vignette.


Un porto è un rifugio, un luogo dove si entra. Mi sono raffigurata il porto della mia mente - un po’ malconcio, vessato dalle tempeste, ma accogliente e in buona posizione. Il mio porto è una baia profonda, l’unico accesso all’isola del mio Io (una giovane isola vulcanica, d’accordo, ma fertile e rigogliosa). Sull’isola è stata combattuta qualche guerra, è vero, ma adesso ci stiamo impegnando per la pace, perché il nuovo capo del governo (cioè io) ha introdotto drastiche misure di protezione.  Adesso - e fate  in modo che la voce circoli per i sette mari - il permesso di entrare nel porto viene concesso solo in rare occasioni. Le navi appestate cariche di pensieri offensivi, le navi negriere cariche di pensieri sottomessi, le navi da guerra cariche di pensieri esplosivi - tutte saranno respinte. E anche i pensieri che si comportano come esuli arrabbiati, o contestatori, o ammutinati, o prostitute, o lenoni, o clandestini sediziosi -anche loro sono banditi. Persino i missionari saranno interrogati. La loro sincerità sarà messa alla prova. Il mio è un porto pacifico, la via d’accesso a un’isola bella e orgogliosa, che solo ora sta cominciando a coltivare la tranquillità. Se osserverete le nuove leggi, cari pensieri, sarete benvenuti nella mia mente - altrimenti, vi ributterò nel mare da cui venite. È la mia missione, e lo sarà per sempre.


«Per me il matrimonio è come un’operazione chirurgica che cuce due persone insieme e il divorzio e una specie di amputazione che impiega molto tempo a guarire. Più a lungo sei stato sposato, o più cruenta è stata l’amputazione, più è difficile guarire». Una buona spiegazione per le sensazioni spiacevoli del mio «dopo divorzio», e per la presenza di quell’arto fantasma che va a sbattere dappertutto e fa cadere gli oggetti dagli scaffali.


Ho avvertito la brezza notturna sulle piante dei piedi nudi. Stare dritti a testa in giù non è un esercizio adatto a un'incorporea e fredda anima azzurra, ma a un essere umano sì. Abbiamo le mani; possiamo poggiare il peso sui palmi delle mani e sollevare le gambe in aria - è un nostro privilegio. E' la gioia di un corpo mortale. Ed è per questo che Dio ha bisogno di noi. Perché a Dio piace sentire le cose attraverso le nostre mani.


« […] Sembri un’altra persona rispetto a quando ti ho conosciuta, qualche mese fa. È come se avessi butta via un po’ della tristezza che ti portavi dietro.»
«In questi giorni mi sento veramente felice, Richard.»
«Bene, allora ricordati che tutta la tua tristezza ti aspetterà all’uscita, nel caso tu volessi riprenderla quando te ne andrai di qui.»


[…] Se c’è una sacra verità nello yoga, è racchiusa in queste parole. Dio vive dentro di te essendo te stesso, esattamente come sei. A Dio non interessa guardarti mentre interpreti un ruolo, mentre ti esibisci per adeguarti alla stramba idea che ti sei fatto di «comportamento spirituale».


[…] Saranno guidati da una monaco di cinquant’anni, una donna eccezionale, di cui ogni gesto e ogni parola sono l’incarnazione della pietà, ma hanno ugualmente paura perché - per quando amorevole possa essere la loro guida -  non può accompagnarli dove devono veramente andare.


Sean, il mio mistico produttore di latticini  irlandese, me lo ha spiegato così: «Se immagini che l’universo sia la ruota di un grande motore che gira»ha detto, «capisci subito che devi stare vicino al centro - proprio nel mozzo della ruota - e non sul bordo, dove il movimento è frenetico e puoi esaurire le forze e diventare pazzo. Il centro è calma - il centro è il tuo cuore. È lì che Dio vive. Smetti di cercare risposte nel mondo. Continua a tornare al centro, e troverai la pace».


Gli essere umani sono nati, come la mia guru ha spiegato tante volte, con eguale possibilità di contrarsi o di espandersi. Gli ingredienti dell’oscurità e della luce sono presenti allo stesso modo in ciascuno di noi e dipende dall’individuo (o dalla famiglia, o dalla società) decidere se si vorrà sviluppare la virtù o il male. La follia del nostro pianeta è in gran parte il prodotto delle difficoltà che l’essere umano incontra nella ricerca di un sano equilibrio con se stesso. La pazzia (tanto individuale quanto collettiva) è il risultato di questi insuccessi.
«Ma che cosa possiamo fare contro la follia del mondo?»
«Niente» Ketut ha riso della mia domanda ma con una nota di gentilezza. «Così è la natura del mondo. Devi preoccuparti solo di tua follia – comincia a cercare la pace in te.»


Ketut mi ha spiegato che i balinesi credono che ciascuno di noi alla nascita sia accompagnato da quattro fratelli invisibili che vengono al mondo insieme a noi e ci seguono e ci proteggono per tutta la via. Quando il bambino è nel grembo materno, i suoi quattro fratelli sono lì con lui - sono rappresentati dalla placenta, dal liquido amniotico, dal cordone ombelicale e dalla sostanza gialla e grassa che protegge la pelle del bambino prima che nasca. Quando il bambino nasce, i genitori raccolgono quanto più possono di queste sostanze estranee, le mettono nel guscio di una noce di cocco e le seppelliscono davanti alla porta di casa. Secondo i balinesi questa noce di cocco sepolta è il sacro luogo del riposo dei quattro fratelli non nati, da venerare per sempre come un tempio.
Al bambino, appena ha coscienza, viene detto che ha quattro fratelli che lo seguono nel mondo, ovunque vada, e che lo proteggeranno sempre. I fratelli incarnano le quattro virtù di cui l’uomo ha bisogno per essere felice: l’intelligenza, l’amicizia, la forza e (questa mi piace) a poesia. I fratelli possono essere invocati in qualsiasi momento e sono in grado di portare salvezza e assistenza in ogni situazione. Al momento della morte i tuoi quattro fratelli invisibili prendono la tua anima e la portano in paradiso.


È facile pregare quando si è angosciati, è più difficile continuare a farlo quando la crisi è passata, e aiutare a propria anima a tenere stretti i buoni risultati ottenuti.


[…] tutti i problemi e le sofferenze di questo mondo sono causati da persone infelici. E questo non riguarda solo personaggi come Hitler o Stanlin, ma anche la nostra piccola sfera personale.


Spazzare via l’infelicità ti aiuta a non seccare gli altri. A non essere di ostacolo né a te stesso né al tuo prossimo.


«Mi stai dicendo che il paradiso e l’inferno sono la stessa cosa?»
«Uguali-uguali» ha detto «e se destinazione è uguale, meglio scegliere il viaggio più bello, no?»


[...] Per qualche ragione che non capisco, provo per te quello che provavo per i miei figli quando erano piccoli, capivo che non era compito loro amarmi, ma compito mio amare loro. Tu puoi decidere di sentire quello che ti pare, ma io ti amo e ti amerò sempre. Anche se non ci dovessimo vedere mai più, tu mi hai fatto rinascere, e te ne sono grato. Naturalmente, mi piacerebbe passare la mia vita con te, anche se non so bene che tipo di vita potrei offriti a Bali».


Non ho ancora imparato com’è inutile preoccuparsi?


[...] La bambina era diventata una di noi. Un essere umano. Con tutti i rischi e le emozioni che quella stupefacente incarnazione avrebbe implicato.


La mia mente era un campo di battaglia, pieno di demoni in conflitto. Ricordo che, prendendo la decisione di passare dieci giorni da sola in silenzio, in mezzo al nulla, ho detto alle forse che lottavano in me e mi facevano sentire divisa: «Adesso siamo qui insieme, non c’è nessun altro. Dobbiamo trovare una soluzione, un punto di accordo, o prima o poi moriremo tutti».


[...] Poi ho detto alla mia mente: «Adesso mostrami la tua rabbia». Uno per uno, ogni motivo di rabbia è apparso davanti a me e si è fatto riconoscere. Ogni ingiustizia, ogni tradimento, ogni perdita. Li ho visti tutti, uno per uno, e ne ho ammesso l’esistenza. Ho sentito ogni accesso della mia rabbia, come se si verificasse in quel momento per la prima volta, e poi ho detto: «Adesso vieni nel mio cuore. Potrai riposare. Adesso è un posto sicuro. È finita. Ti amo». [...]
A quel punto è cominciata la parte più difficile. «Mostrami i tuoi motivi di vergogna» ho chiesto alla mia mente. Dio mio, non si possono immaginare gli orrori che ho visto. Una patetica sfilata di tutte le mie mancanze, le mie bugie, il mio egoismo, la mia gelosia, la mia arroganza. Ma per nessuno di questi dimostranti ho battuto ciglio. «Mostrami il peggio di te» ho insistito. Quando ho tentato di invitare i deplorevoli motivi di vergogna nel mio cuore, hanno esitato sulla soglia: «No - non crediamo che tu ci voglia lì dentro… non sai che cosa abbiamo fatto».


E io dicevo: «Io vi voglio. Persino voi. Vi voglio. Anche voi siete i benvenuti. Va tutto bene, siete perdonati. Siete parte di me. Adesso potete riposare. È finita».


I saggi yogi dicono che tutto il dolore della vita umana è causato dalla parole, così come tutta la gioia. Creiamo parole per definire la nostra esperienza, e quelle parole portano emozioni ausiliarie, che ci tirano a destra e sinistra, come cani al guinzaglio. Rimaniamo sedotti dai nostri stessi mantra. (Sono un fallimento… Sono sola… Sono un fallimento… Sono sola). Io ero n esempio perfetto di questa sottomissione alle parole. Smettere di parlar per un periodo significa cercare di togliere il potere alle parole, smettere di lasciarci soffocare da loro, liberarci dai nostri opprimenti mantra.


[...] E forse era la donna realizzata di adesso che quattro anni fa aleggiava sopra la giovane ragazza sposata,singhiozzante sul pavimento del bagno, e le mormorava amorevolmente nell’orecchio: «Torna a letto, Liz…», sapendo che tutto sarebbe andato bene, che la vita ci avrebbe alla fine portate qui insieme. Proprio qui, dove da sempre la aspettavo, nella pace, nella serenità, perché si unisse a me.


Lo ammetto è un finale quasi ridicolo per la mia storia, un lieto fine da fiaba, una pagina che sembra presa dal sogno di una casalinga (o da un sogno mio di qualche anno fa). Ma quello che mi preserva dalla completa dissoluzione nel luccichio delle fiabe è un’innegabile verità: io non sono stata salvata da un principe; sono stata io stessa l’artefice del mio salvataggio.


Penso alla donna che sono diventata, alla vita che sto vivendo, e a quanto ho sempre voluto essere questa persona e vivere questa vita, libera dall’obbligo di fingere di essere un’altra.


[...] Forse, tuttavia, dovremmo rinunciare a cercare di sdebitarci con chi ci ha aiutati nella vita. Forse sarebbe più ragionevole arrendersi davanti alla miracolosa, illimitata grandezza della generosità umana e limitarsi a dire solo grazie, eternamente, sinceramente, finché abbiamo voce.

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