mercoledì 19 ottobre 2016

Venuto al mondo - Margaret Mazzantini

Vado da Pietro, apro le imposte. Con un gesto brusco si tira il lenzuolo sulla testa. Resto accanto a una mummia.
Quest’anno ha fatto la muta, ha lasciato le sue ossa di bambino per diventare un grosso airone zoppicante che ancora non controlla bene i suoi movimenti. Ha cominciato a guardar fisso a terra come un cercatore d’oro, a uscire di casa senza salutare, a mangiare in piedi davanti al frigorifero.


Mi fermo. Torno indietro. Giuliano non se n’è andato, è ancora lì. Guarda l’angolo dove siamo scomparsi. Le gambe larghe, le mani in tasca come un autista in attesa, una figura anonima nel viavai della gente. Come se, partiti noi,avesse perso la sua identità. Ha una faccia diversa, inerte, i muscoli sembrano aver ceduto. In un attimo misuro la solitudine che gli lascio addosso.


La vedo come fosse adesso… un volto proletario, sofferto, eppure infinitamente dolce. Una di quelle persone benefiche che incontri per caso e ti viene voglia di abbracciare, perchè ti sorridono dal fondo della loro esperienza umana e di colpo ti risarciscono dell’altra metà del mondo, quella accasciante delle persone rinserrate nella loro pozza di buio.


“È stato più facile prima correre sotto le granate che dopo passeggiare sulle macerie.”


La neonata sembra una vecchia. Ha addosso l’odore del suo viaggio, un odore di fondo di pozzo, di lago.


Sono stesa con un braccio sotto la testa di Diego. Sono calma, sazia… guardo questo piccolo fenomeno. Questo ragazzo che ha saputo conoscermi, accudirmi naturalmente, come se non avesse fatto alto tutta la vita.


Osservo le persone, conto quanti anni avevano allora. Se erano già grandi o ancora bambini, conto quello che la guerra ha mangiato, nelle occhiaie, in certi sguardi fermi come vetro, nelle sigarette che tremano bagnate nella dita. Glielo conto su questi visi, grigi sotto la pioggia, che ora guardo come morti che risorgono dal mare.


I banchi sono pieno di colori, molto più ordinati di quanto non ricordassi… l’elenco dei morti è in fondo su un muro di pietra grigia, è impressionante. È l’elenco dei vivi strappati alla vita, tutti nello stesso istante, nello stesso battito d’ali del diavolo. E in un attimo mi chiedo dov’è quel diavolo, se si è allontanato abbastanza o se ancora zoppica non lontano da qui.


Istantanee di visi scheletrici, scavati dalla fame, dalla paura. Primi piani di gente anziana, così stretti che spesso i capelli sono tagliati fuori, restano solo gli occhi, i sentieri tortuosi delle rughe, le bocche logore. Nessuno di loro ha un’espressione mite, sembrano guardare tutti lo stesso punto, in una zona oscura, ignota dalla loro storia di esseri umani. È come se chiedessero qualcosa all’obiettivo che li scruta, una risposta che ancora nessuno ha saputo dar loro.


Diventa ostica e persino brutta a vedersi. Se ne sta lì seduta sul muro del cortile a succhiarsi i capelli, a rispondere male a chiunque si avvicinasse. Ehi, Pepe bianco, la stringevo. Ed era come stringere un orgoglio troppo robusto, la parte meno allentante di me stessa. Quello scoglio troppo duro che non avrebbe mai consentito a nessuno di amarmi fino in fondo. Sebina era in grado di raggiungere la mia solitudine, eravamo identiche. Presuntuose e stupide. Mi si attaccava al collo, la riportavo su in casa da sua madre, le gambe ciondoloni sul mio corpo lungo le scale. Era guarita, era passato il buio. Non sono mai stata una di quelle persone particolarmente attaccata ai mocciosi, non ho pazienza, non faccio le vocine. Ma Sebina fu un caso a parte. Fu un regalo che Dio mi fece, un anticipo di amore.


Poi avrei scoperto che avevano parlato la telefono tante volte durante il mio matrimonio. Parlato di me, di fotografie, di viaggi. Si erano simpatici, adesso si guardavano e si capisce al volo che si piacciono. Che da quest’alba nascerà un amore, un altro. Forse è facile, perché la vita è fessa. Perché Diego è rimasto orfano da bambino e papà non ha mai avuto un figlio maschio. Ha avuto solo quel genero che non li è mai sceso più di tanto nel cuore, gli è rimasto a metà gola come una raucedine.


Era una casa buona, testimone di vite riservate, parsimoniose, di luci spente presto per non consumare la corrente. Quanto restammo soli, la prima volta che avemmo le chiavi, fu come entrare in un santuario. Carezzammo i muri, ci posammo le guance contro, li baciammo. Come fossero vivi, perchè quella calce e quei mattoni adesso avrebbero dovuto difendere le nostre vite.


Così era cominciata la piana della nostra normalità. Temevo che prima o poi il bivacco quotidiano, quel masticamento di cose sempre uguali, avrebbe corrotto anche noi, e che un giorno il disincanto avrebbe fatto capolino tra le lame delle persiane, insieme a una di quelle giornate di maltempo e di smog. Ognuno dei due avrebbe ricominciato a pensare a se stesso, ai propri problemi, svincolato dall’altro. Anche su di noi sarebbe scese quel velo opaco che ammanta le coppie dopo un po’, quando finisce l’illusione e con essa la benigna cecità che scolora i difetti dell’altro. È così che capita, così era capitato ai miei genitori. Mi padre era felice di uscire di casa al mattino e mia madre tirava il fiato anche lei, s’annusava beata l’odore della sua solitudine. Eppure si volevano bene, si rispettavano.


“A cosa pensi?” gli dissi.
“A mio padre.”
“A tuo padre?”
“Piove. Quando piove penso a Genova, a mio padre che cammina con la sua cerata sotto la pioggia.”
Ero distratta con un orecchio ancora teso a quelli del divano, al gioco che proseguiva. Tornai dai miei amici, vezzeggiata da tutti quelli della mia squadra perché sapevo la risposta. Era fin troppo facile, era l’incipit di un libro di moda quell’anno. La nube di Chernobyl galleggiava sull’Europa, un mio amico nutrizionista stava facendo l’elenco dei cibi più contaminati, non bisognava fidarsi nemmeno del pane.
Diego era ancora lì, guardava la pioggia. Allora mi ricordai che suo padre era morto in una giornata di pioggia torrenziale, il container si era staccato dal cavo d’acciaio.
Ero tornata da lui, gli avevo posato una mano sulla spalla. Ero rimasta lì accanto in silenzio. E in silenzio avevo sentito il rumore del suo cuore… i suoi passi da bambino. Era accorso insieme a sua madre, il padre giaceva in una pozza di acqua sporca di sangue.
Quella è la prima fotografia che ho immaginato, mi aveva detto quel giorno di un anno prima a Genova. La prima pozzanghera… quella che è sempre con me in fondo a ogni rullino.
Ce ne andammo nonostante la pioggia, nonostante fosse ancora presto.
“Andiamo.”
“Sei sicura?”
“Sono stanca.”
Ci bagnammo sul sellino della moto. Tornammo a casa fradici. Facemmo l’amore in terra, sulla pozza dei nostri panni bagnati. Facemmo l’amore su quella fotografia mai scattata, su quel padre morto, zuppo di pioggia, piatto come una razza. Mi disse grazie. Gli tirai su la testa, infilai la lingua nei suoi occhi, leccai le lacrime.
“Voglio un figlio” gli dissi, “un figlio come eri tu, come sei tu… voglio ridarti un padre… vorrei ridarti tutto, amore mio. Tutta la pioggia”.
Allora non resse, cominciò a singhiozzare nelle ginocchia come quel giorno, come un sudicio moccioso disperato sotto l’acquazzone che gli ha ucciso il padre.


Non è vero che ne adotti uno. Tu adotti il dolore del mondo. È una cartina di tornasole delle tue incapacità.


Non si può aver pietà di chiunque… Non mi piacciono questi ragazzi, non mi piacciono i loro visi sudati che paiono fatto di un materiale minore, scadente… di una carne senza luce, di detriti e polvere.


Adesso è più facile tornare verso casa, accendere la luce, ritrovare quel mucchio di stanze, di cose nostre che sono rimaste sole tutto il giorno e ora puzzano di silenzio.


Ci siano noi su uno di quegli aerei, ci ha accompagnato con gli occhi, ha alzato il mento. Appena poco fa eravamo vicini e grandi, corpi e odori, e adesso siamo destini messi in cielo. Mio padre guarda la distanza tra il niente e il tutto, tra quella scoreggia di fumo bianco in mezzo alle nuvole e questo amore quaggiù, stretto nel cuore che comincia a essere anziano.


Chi vuoi che abbia voglia di sorvolare una guerra? Invece di gente ce n’è. Uomini che andranno in quei locali di luci opalescenti e di ragazze bianche come il burro che hanno appena cominciato a sporcarsi. La svendita è agli inizi, fa gola arrivare per primi ad arraffare la purezza.


Com’erano le facce degli ebrei quando guardavano, senza riconoscerlo, il male che gli veniva incontro?


Lui diceva: “Le poesie non si spiegano, se raggiungono il posto giusto le senti, ti grattano dentro”
“Qual è il posto giusto?”
“Cercalo”.


Ma forse, penso, ha ragione lei, non sono mai nata. Sono l’ombra dei miei desideri.


Adesso non dovevo fare altro che aspettare. Erano loro che tiravano la slitta. Non correvo nessun rischio. Diego era mio come ogni goccia del mio sangue. E volevo che quel bambino nascesse dal piacere e non alla tristezza. Ero stufa di fantasmi rachitici, di donne tristi, di bambini opachi. Mi piaceva il banchetto di quella giovinezza.


È tornata in vita anche lei… l’avevo cacciata dalla mia mente come tutto ciò che è andato perso, una figura laterale, un guscio rotto. E invece adesso vorrei abbracciarla… la trascino per un braccio nel mondo, la rimetto al suo posto. Anela non si ricorda di me, però mi guarda. E i suoi occhi sono paludi che trattengono a stento il pianto.


Inciampo, resisto. Diego è seduto davanti a me su questa rete… il materasso è senza lenzuola, è bruciato qua e là, chiazzato. È a torso nudo, suona la chitarra, i capelli lunghi tenuti da un elastico rubato a me. Ha i piedi sporchi di sangue, i piedi di un ragazzo che ha camminato sui vetri. Non mi guarda, canta… Spring is here again… Tender age in bloom… Never mind… Aska è accanto a lui sul materasso incendiato, trema. Le finestre sono rotte, entrano raffiche di gelo. Vorrei tirargli una giacca, una coperta… qualcosa. Coprirli. Sorrido, non hanno freddo, penso, perché sono morti. Sono anni che sono fermi su questo vecchio letto, prigionieri di questa stanza.


Boati arrivano dalle montagne. Era la vitacee se ne andava per lasciar posto alla follia. Ancora non lo sapevano, si strinsero. C’erano quei compiti da correggere, Mirna li toccava… galleggiavano già lontano, come quelle piccole vite che li avevano scritti, come quel tavolo, come loro due.


No, non ricordo esattamente quando il filo della normalità s’interruppe, quando anche i cani fuggirono a nascondersi… C’erano panni stesi, era primavera, la stagione delle pulizie, delle finestre aperte. Ogni tanto qualche corvo berciava per le vie, nessuno gli dava retta. Era una città pacifica, nessuno si chiedeva più di tanto di che etnia fosse l’altro, il vicino di casa o la moglie. Si volevano bene o si detestavano per simpatia, per odore, come in ogni posto del mondo.


Un giorno Diego tornò con il primo morto in un rullino. Una donna accanto a un sacchetto da cui rotolano mele.
Si strappò il laccio dal collo, allontanò la macchina fotografica dal suo torace come se bruciasse, la buttò sul letto pieno di rabbia, quasi ce l’avesse con quell’occhio meccanico che lo costringeva a guardare… quel corpo che l’immagine avrebbe fissato così, per sempre insepolto. Mentre sfilava i rullini mi sembrò che le mani tremassero, li depositava nel buio di una scatola di latta.
“Mi sento un becchino, uno che seppellisce”.


L’istruttore di ginnastica di Sebina era morto, era morta anche la farmacista. Corpi che rimanevano per un pezzo soli… perchè era troppo pericoloso avvicinarsi, lo sniper aspettava sul suo mirino. Venivano trascinati via solo di notte, e di notte veniva sepolti nel vecchio cimitero mussulmano. Funerali silenziosi, gente lieve come farfalle notturne. Si sfidava la morte per seppellire la morte.


Di notte rasentiamo i muri. Insieme a noi altre ombra umane filavano via silenziose come alghe nel mare. Ci muoviamo in un acquario nero. Non c’è luce, solo candele spente. Il buio totale. La luna è la lanterna di un fantasma. La luce rossa di un proiettile al fosforo ci illumina per qualche secondo, poi cade, come una stella precipitante.


Erano donne, uomini, bambini che giocavano… E non sapevamo che sarebbero stati incisi sul muro, fotografati dai cellulari dei turisti all’infinito. Era la fila per il pane, c’era un buon odore. Era una giornata di fiducia, di lepri che mettono la testa fuori.


Siamo chiusi nella nostra omertà. Non parliamo. Facciamo tutti e due la stessa cosa, cerchiamo di prendere il largo. Di allontanarci da quei giorni mettendo in mezzo altri giorni, questi giorni che stentano a passare.


Il mio fronte era questo. Questa città tranquilla. Questa casa pulita e vuota senza Diego. Non c’erano più i suoi jeans, le sue cicche in giro, i rullini che rotolavano sotto il divano. Il disordine era tutto suo, e forse sua era la vita. Da sola non sporcavo, non esistevo. Ero neutra, inodore. Mangiavo e già toglievo il piatto. Il letto era sempre intatto.


La notte pensavo a queste vedove, a questi letti grandi, comprati a rate, vuoti a metà. Faranno come me, resteranno ferme nel buio. Si asciugheranno le lacrime per non sporcare le federe.
Penso a questi bambini, al braccio che non useranno mai più per fare quel gesto. Per sollevarlo e dare la mano al padre.


Un’altra settimana di silenzio. Vado dal parrucchiere. Mi siedo in quella pianura di benessere, mi lascio limare anche le unghie dei piedi. Le donne intorno a me hanno borse eleganti e impegni che le aspettano in questa città che ha ripreso il suo giro dopo la pausa estiva. Io non ho nulla, solo il mio corpo abbandonato. Questa testa alla quale ho cercato di dare un ordine esteriore. Sono in ostaggio di questa terra di nessuno. Esco da lì che sembro una bambola, intrisa di profumi che non mi appartengono. Piove e non apro l’ombrello, mi lascio devastare con piacere.


Quanta vita c’è in quella guerra?
Quanta morte c’è in questa pace?


La fioraia di Markale, quella vecchietta che sembra una strega buona, non ne ha più di veri da vendere, così si è inventata questi piccoli fiori fatti di pezzetti di carta che arriccia, che colora. E penso che Diego somiglia a questi fiori di carta, che trattengono la nostalgia dei colori, del profumo, della vita.


Ora con un po’ di luce mi accorgo che lo sguardo di Gojko era più sporco che un tempo, macchiato da quei mesi di guerra. La giovinezza se n’era andata, sparita. Si trascinava dietro un carico di illusione, di acrimonia… anche il suo umorismo aveva qualcosa di guasto, puzzava di formiche bruciate come tutto. E adesso mi sembrava che anch’io sarei invecchiata di colpo.


“Perché sei qui” gli chiesi.
“Sono dove devo essere”


Non bisogna fermarsi a guardare… lasciare agli occhi il tempo di vedere, di affezionarsi. È questo che bisogna imparare. Non dare ai morti il tempo di rivelarsi, di diventare reali, bisogna tirare dritto, non discernere un corpo da un sacco di sabbia, ma lasciarseli dietro, indistinti, allontanarli dal vero, guardare solo la propria strada. Solo così si può resistere. Non dando ai morti un nome, un cappotto, un colore di capelli. Lasciarli. Imparare a scansarli già da lontano, fingere di non averli visti. Fingere che non ci siano.
Perché se ti fermi, se te li lasci scivolare dentro… allora inevitabilmente rallenti il passo.


Ha uno stano odore anche lei. L’odore dei cittadini di Sarajevo. E non è soltanto l’acqua che manca, perché oggi ci si lava con la pioggia, è la stanchezza, il panico che trasuda dai corpi. Un odore di premorte. Come quello delle bestie terrorizzate che d’un tratto emanano un fetore insopportabile per difendersi. Sono corpi sottosopra, stomachi alternati di gente che mangia erba e non dorme ed esce di casa con la certezza di morire.
Piove su questa piccola fila in cortile. Donne in ciabatte, zuppe che tremano.
“Guarda come ci siano ridotti…”
Velida stamattina può piangere, perché piove così tanto che nessuno si accorgerà delle sue lacrime. Una donna in fila la spinge, lei si fa di lato, la lascia passare. Poi le cede anche la sua razione di latte, che il vivandiere ha trovato chissà dove, sono mesi che non si vede un po’ di latte vero. M’arrabbio, le dico che è troppo magra per permettersi di essere così generosa. Ma lei non vuole ridursi come un animale, rifiuta quella lotta tra disperati.
“Ha dei figli” dice, “io ho soltanto la morte.”
Alza la testa, i capelli bagnati le denudato il capo, sono ciuffetti di lana fradicia.
“Ormai la vedo, fino a poco tempo fa la tenevo a distanza, ma ormai è qui, l’ho lasciata entrare… si siede in cucina come me, mi guarda davanti ai fuochi spenti, mi fa compagnia. M’invita a danzare. Stanotte indossava le miei scarpe italiane, quelle del viaggio di nozze, color cammello, aperte sul tallone.”


Il destino è come il cuore, mi ha detto, è dentro di noi fin dal primo istante, quindi è inutile cambiare strada.


Gli occhi passano accanto ai cadaveri e non si fermano, non si voltano. La guerra è dentro questi passi che continuano, questi occhi stanchi che scartano.
Gli occhi sono gli unici pezzi di vetro che non cadono, restano lì nei loro telai tra le ossa, costretti a guardare, a ingoiare immagini che ammalano il corpo.


Madri intorno piangono, uno dei due pullman è interamente occupato da bambini. C’è solo un accompagnatore, un uomo robusto, con una cravatta color pesca, che raccoglie i passaporti.
Questa cravatta mi tornerà in mente, insieme a quel pullman di bambini, nel salotto di casa mia a Roma, quando un giorno leggerò che centinaia di bambini evacuati da Sarajevo sono scomparsi nel nulla. Forse adottati illegalmente, forse molto peggio. Peggio, da dire: spegni tutto, Dio? Togli il sole, buttaci addosso dal cielo un pianeta nero come il cuore dei bracconieri in cravatta. Oscura tutto una volta per sempre. Cancella anche il bene, perché il male vive nelle sue tasche. In questo istante. In questo. Perché in questo istante un bambino sta per essere raggiunto. Salva l’ultimo. Spegni tutto, Dio. E non avere pietà, non abbiamo diritto a nessun testimone.


La vita è qui, tra queste macerie ricoperte di gelo. E lui non l’ha mai sentita così forte. LA vita è Khalia, la ragazzina ce trascina lo slittino con i suoi fratelli sopra, piccole come conigli, è Izet, il vecchio che ogni giorno va davanti alla sua bottega chiusa alla Baščaršija e s’appoggia alla saracinesca ammaccata, la vita è la fioraia che vende mazzetti di illusione.


E mi sento viva, perché non mi è rimasta che la rabbia.


E forse dovrei raccontare a suo figlio la sensazione di questo vuoto, di questa vita in caduta. Sono i primi passi che facciamo da soli, da orfani. I passi incerti di una di quelle bestie dalle zampe lunghe che appena partorite, per sopravvivere, devo subito mettersi in piedi.


La verità è che ho scelto, e Diego lo sa. Non me e sarei mai andata a mani vuote. Ma adesso ho questo pacco a consegnare al mondo. Mi sto portando via la parte migliore di lui, la vita nuova, quella che nessun dolore ha sporcato. E mi sembra di vedere il suo sorriso. Mi schiaccio contro l’unica fessura da cui si vede fuori. L’aereo si sta muovendo. Guardo il ragazzo di Genova per l’ultima volta.
Il corpo magro e lontano contro la bolla di luce mogia di quell’aeroporto senza vetri, senza personale, senza voli… sta lì fermo, accanto al poliziotto. Il suo viso giovane, spolpato come quello di un vecchio, guarda questo C130 che muove le suo ruote sul nevischio. Guarda noi, quello che sta perdendo.
È rimasto a terra, in quella terra sporca. E non saprò mai se quel passaporto è davvero caduto nella neve.


Adesso si accorge che la donna sta piangendo, pur senza muoversi, senza nemmeno sbattere gli occhi. Lacrime grosse che cadono a terra come perle. E lui istintivamente avrebbe voluto raccoglierle come perle di una collana rotta e di restituirgliele. Conosco lo sguardo dei profughi, della gente che cerca nei suoi occhi la conferma della propria esistenza, come se fosse lui a decidere di lasciarli in vita. Sono sguardi che fatica a sostenere.
L’uomo mi guarda. Ha una faccia larga, compatta, italiana, la fronte lucida di ci ha perso i capelli.
“Di chi è?”
E non sa Giuliano, che quel bambino sarà il suo, che sarà lui ad accompagnarlo a scuola, dal pediatra. Non sa che vivrà per lui. È un attimo lungo, di placido sgomento, in quel cesso dove il destino pesca.


Guardo quest’uomo infondo a questa luce notturna, con in braccio un neonato di Sarajevo. E d’improvviso sento quel dolore, che poi mi prenderà ogni volta e ha un modo tutto suo di aggredirmi. Mi stringe la nuca, m’irrigidisce il collo. È Diego che mi trattiene da dietro, riconosco le sue mani, il suo fiato, però non posso voltarmi. Era lui che doveva tenere in braccio il bambino, il ragazzo che sarebbe stato un padre meraviglioso, un santo, un giocoliere. È lui che mi tiene per la nuca e mi sussurra di guardare il mio destino avanti, le scene della mia vita senza di lui. È lui che non mi consente di voltarmi. Di abbracciare la morte.


A Sarajevo fa ancora molto freddo, è tutto come prima, dice, perché ormai il peggio non esiste, è stato raggiunto e oltre non c’è nulla, c’è la monotonia del dolore, come una nenia ce si ripete e si ripete, come un vestito che struscia nel fango e che nessuno pulirà mai più.


Che cosa avesse capito non lo sapeva nemmeno lui. Erano le sole parole che gli erano venute e le aveva pronunciare a piena voce, per tamponare in maniera dignitosa la situazione, l’emorragia che era cominciata, inarrestabile.
Era un uomo fermo, mio padre, riservato, piuttosto timido. Non era abituato a lasciarsi andare. Così il suo corpo resistette al dolore imprigionandolo.


“Hai saputo qualcosa, papà?”
Adesso mi ricordo che le nespole sono la frutta preferita da Diego, e che papà gliele portava sempre.
“Hai saputo qualcosa?”
E non capisco perché papà le abbia portare proprio oggi, e sia andato fino in centro per trovarle visto che non è ancora la stagione, visto che a me non piacciono granché e lui lo sa bene.
Aveva mille modi per dirmelo, o forse aveva solo questo.


Mi ha portati in bocca il sapore di lui mentre viveva, è già un pezzo di qualcosa, di come faremo in futuro.
Mangeremo qualche nespola, ogni tanto, in silenzio, per ricordarci di lui, del fotografo di Genova che aveva scritto il numero di Armando accanto alla parola che gli era più mancata, papà.


Ora eccomi vedova.
So che dovrei reagire, invece guardo le nespole sul tavolo. Mentre sto ferma, so che non bisogna farlo, che farà male dopo, bisogna piangere, rompersi. È pericoloso restare in asse, esattamente dove si è, senza spostarsi di un millimetro, mentre tutto cade. È un eroismo che non serve a nulla, come non serve a nulla la dignità.


Bene, non lo vedrò più.
Significa che non vedrò più le sue gambe da gnu, significa che non sentirò più l’odore del suo collo. Lui si è portato via gli occhi che mi guardavano e io non potrò più chiedergli come sono?, e lui non potrà più rispondere sei tu. Significa che la sua voce è ferma in una gola morta e che questa gola verrà sepolta.
Bene, è tutto qui.


Decisi di non andare a Dubrovnik, non avevo più nessuna intenzione di attraversare quel mare. Avevo il bambino piccolo e papà non stava bene, si stava riprendendo dalla paresi, ma non era più lo stesso. Eravamo come quelle finte persone dei film di fantascienza, mutanti svuotati di noi stessi e abitati da automi.
Si sentiva un suono diverso quando ci davamo il solito bacio, cozzavamo uno contro il dolore dell’altro, stagno nel corpo, nelle braccia che sembravano di ferro. E ci dava persino fastidio guardarci in faccia. Era meglio guardare gli estranei, la gente che non sapeva.


Si sono trovate a metà strada, madre e figlia. Correvano, una saliva, una scendeva, sulla stessa scala, per cercarsi.
Se fossero rimaste esattamente dov’erano avrebbero mangiato un po’ di polvere, un po’ di paura, e nulla più.
Ormai erano vicine ad andarsene dall’assedio. Si erano convinte, Gojko aveva trovato un giornalista amico, un ragazzo di Belgrado che le avrebbe portate con sé.
E invece si erano mosse, ero uscite dalla scacchiera della vita, senza saperlo. Camminavano trainate dalla corda che le univa.

Tieni un capo del filo,
con l’altro capo in mano
io correrò nel mondo.
e se dovessi perdermi
tu, mammina mia, tira.

Tirò la morte per loro, tirò forte. Una granata entrò, attraverso il palazzo riparato.
In quell’istante si erano raggiunte. Madre e figlia. Ventre e frutto.


Era andato a combattere prima a Dobrinja, poi sullo Žuč. Era un poeta, un venditore ambulante, un radioamatore, una guida per turisti, uno stupido che non aveva mai tirato nemmeno a un piccione. Invece imparò subito, perché l’odio si impara in una notte.


Stiamo lasciando Sarajevo. Gojko cammina verso la macchina, gli guardo la schiena. La schiena è la parte che non puoi vederti, quella che lasci agli altri. Sulla schiena pesano i pensieri, le spalle che hai voltato quando hai deciso di andartene.
Così Gojko si porta la sua schiena, più bassa da un lato, lì dove ha preso il colpo, dove la vita ha virato. Il passato è fermo lì sopra, come un falco sulla spalla di un falconiere.


Chi sei? Quante volte me lo sarei chiesta. Quante volte ti avrei guardato con sospetto. Ridi come rideva Diego, come ridono i ragazzi. Sei scemo e intelligente, sei innocuo e pericoloso. Sei una possibilità tra milioni. Un ragazzo del Duemilaotto, nato a fine dicembre. Millenovecentonovantadue a Sarajevo. Sei uno dei primi figli degli stupri etnici.


Siamo sempre stati un po’ ridicoli insieme, credo che questa sia la nostra bellezza. La vita è un buco che si infila in un altro buco. E stranamente lo riempie.

Nessun commento:

Posta un commento