Quest’anno
ha fatto la muta, ha lasciato le sue ossa di bambino per diventare un grosso
airone zoppicante che ancora non controlla bene i suoi movimenti. Ha cominciato
a guardar fisso a terra come un cercatore d’oro, a uscire di casa senza
salutare, a mangiare in piedi davanti al frigorifero.
Mi
fermo. Torno indietro. Giuliano non se n’è andato, è ancora lì. Guarda l’angolo
dove siamo scomparsi. Le gambe larghe, le mani in tasca come un autista in
attesa, una figura anonima nel viavai della gente. Come se, partiti noi,avesse
perso la sua identità. Ha una faccia diversa, inerte, i muscoli sembrano aver
ceduto. In un attimo misuro la solitudine che gli lascio addosso.
La
vedo come fosse adesso… un volto proletario, sofferto, eppure infinitamente
dolce. Una di quelle persone benefiche che incontri per caso e ti viene voglia
di abbracciare, perchè ti sorridono dal fondo della loro esperienza umana e di
colpo ti risarciscono dell’altra metà del mondo, quella accasciante delle
persone rinserrate nella loro pozza di buio.
“È
stato più facile prima correre sotto le granate che dopo passeggiare sulle
macerie.”
La
neonata sembra una vecchia. Ha addosso l’odore del suo viaggio, un odore di
fondo di pozzo, di lago.
Sono
stesa con un braccio sotto la testa di Diego. Sono calma, sazia… guardo questo
piccolo fenomeno. Questo ragazzo che ha saputo conoscermi, accudirmi
naturalmente, come se non avesse fatto alto tutta la vita.
Osservo
le persone, conto quanti anni avevano allora. Se erano già grandi o ancora
bambini, conto quello che la guerra ha mangiato, nelle occhiaie, in certi
sguardi fermi come vetro, nelle sigarette che tremano bagnate nella dita.
Glielo conto su questi visi, grigi sotto la pioggia, che ora guardo come morti
che risorgono dal mare.
I
banchi sono pieno di colori, molto più ordinati di quanto non ricordassi…
l’elenco dei morti è in fondo su un muro di pietra grigia, è impressionante. È
l’elenco dei vivi strappati alla vita, tutti nello stesso istante, nello stesso
battito d’ali del diavolo. E in un attimo mi chiedo dov’è quel diavolo, se si è
allontanato abbastanza o se ancora zoppica non lontano da qui.
Istantanee
di visi scheletrici, scavati dalla fame, dalla paura. Primi piani di gente
anziana, così stretti che spesso i capelli sono tagliati fuori, restano solo
gli occhi, i sentieri tortuosi delle rughe, le bocche logore. Nessuno di loro
ha un’espressione mite, sembrano guardare tutti lo stesso punto, in una zona
oscura, ignota dalla loro storia di esseri umani. È come se chiedessero
qualcosa all’obiettivo che li scruta, una risposta che ancora nessuno ha saputo
dar loro.
Diventa
ostica e persino brutta a vedersi. Se ne sta lì seduta sul muro del cortile a
succhiarsi i capelli, a rispondere male a chiunque si avvicinasse. Ehi, Pepe
bianco, la stringevo. Ed era come stringere un orgoglio troppo robusto, la
parte meno allentante di me stessa. Quello scoglio troppo duro che non avrebbe
mai consentito a nessuno di amarmi fino in fondo. Sebina era in grado di
raggiungere la mia solitudine, eravamo identiche. Presuntuose e stupide. Mi si
attaccava al collo, la riportavo su in casa da sua madre, le gambe ciondoloni
sul mio corpo lungo le scale. Era guarita, era passato il buio. Non sono mai
stata una di quelle persone particolarmente attaccata ai mocciosi, non ho
pazienza, non faccio le vocine. Ma Sebina fu un caso a parte. Fu un regalo che
Dio mi fece, un anticipo di amore.
Poi
avrei scoperto che avevano parlato la telefono tante volte durante il mio
matrimonio. Parlato di me, di fotografie, di viaggi. Si erano simpatici, adesso
si guardavano e si capisce al volo che si piacciono. Che da quest’alba nascerà
un amore, un altro. Forse è facile, perché la vita è fessa. Perché Diego è
rimasto orfano da bambino e papà non ha mai avuto un figlio maschio. Ha avuto
solo quel genero che non li è mai sceso più di tanto nel cuore, gli è rimasto a
metà gola come una raucedine.
Era
una casa buona, testimone di vite riservate, parsimoniose, di luci spente
presto per non consumare la corrente. Quanto restammo soli, la prima volta che
avemmo le chiavi, fu come entrare in un santuario. Carezzammo i muri, ci
posammo le guance contro, li baciammo. Come fossero vivi, perchè quella calce e
quei mattoni adesso avrebbero dovuto difendere le nostre vite.
Così
era cominciata la piana della nostra normalità. Temevo che prima o poi il
bivacco quotidiano, quel masticamento di cose sempre uguali, avrebbe corrotto
anche noi, e che un giorno il disincanto avrebbe fatto capolino tra le lame
delle persiane, insieme a una di quelle giornate di maltempo e di smog. Ognuno
dei due avrebbe ricominciato a pensare a se stesso, ai propri problemi,
svincolato dall’altro. Anche su di noi sarebbe scese quel velo opaco che
ammanta le coppie dopo un po’, quando finisce l’illusione e con essa la benigna
cecità che scolora i difetti dell’altro. È così che capita, così era capitato
ai miei genitori. Mi padre era felice di uscire di casa al mattino e mia madre
tirava il fiato anche lei, s’annusava beata l’odore della sua solitudine.
Eppure si volevano bene, si rispettavano.
“A
cosa pensi?” gli dissi.
“A
mio padre.”
“A
tuo padre?”
“Piove.
Quando piove penso a Genova, a mio padre che cammina con la sua cerata sotto la
pioggia.”
Ero
distratta con un orecchio ancora teso a quelli del divano, al gioco che
proseguiva. Tornai dai miei amici, vezzeggiata da tutti quelli della mia
squadra perché sapevo la risposta. Era fin troppo facile, era l’incipit di un
libro di moda quell’anno. La nube di Chernobyl galleggiava sull’Europa, un mio
amico nutrizionista stava facendo l’elenco dei cibi più contaminati, non
bisognava fidarsi nemmeno del pane.
Diego
era ancora lì, guardava la pioggia. Allora mi ricordai che suo padre era morto
in una giornata di pioggia torrenziale, il container si era staccato dal cavo
d’acciaio.
Ero
tornata da lui, gli avevo posato una mano sulla spalla. Ero rimasta lì accanto
in silenzio. E in silenzio avevo sentito il rumore del suo cuore… i suoi passi
da bambino. Era accorso insieme a sua madre, il padre giaceva in una pozza di
acqua sporca di sangue.
Quella
è la prima fotografia che ho immaginato, mi aveva detto quel giorno di un anno
prima a Genova. La prima pozzanghera… quella che è sempre con me in fondo a
ogni rullino.
Ce
ne andammo nonostante la pioggia, nonostante fosse ancora presto.
“Andiamo.”
“Sei
sicura?”
“Sono
stanca.”
Ci
bagnammo sul sellino della moto. Tornammo a casa fradici. Facemmo l’amore in
terra, sulla pozza dei nostri panni bagnati. Facemmo l’amore su quella
fotografia mai scattata, su quel padre morto, zuppo di pioggia, piatto come una
razza. Mi disse grazie. Gli tirai su la testa, infilai la lingua nei suoi
occhi, leccai le lacrime.
“Voglio
un figlio” gli dissi, “un figlio come eri tu, come sei tu… voglio ridarti un
padre… vorrei ridarti tutto, amore mio. Tutta la pioggia”.
Allora
non resse, cominciò a singhiozzare nelle ginocchia come quel giorno, come un
sudicio moccioso disperato sotto l’acquazzone che gli ha ucciso il padre.
Non
è vero che ne adotti uno. Tu adotti il dolore del mondo. È una cartina di
tornasole delle tue incapacità.
Non
si può aver pietà di chiunque… Non mi piacciono questi ragazzi, non mi
piacciono i loro visi sudati che paiono fatto di un materiale minore, scadente…
di una carne senza luce, di detriti e polvere.
Adesso
è più facile tornare verso casa, accendere la luce, ritrovare quel mucchio di
stanze, di cose nostre che sono rimaste sole tutto il giorno e ora puzzano di
silenzio.
Ci
siano noi su uno di quegli aerei, ci ha accompagnato con gli occhi, ha alzato
il mento. Appena poco fa eravamo vicini e grandi, corpi e odori, e adesso siamo
destini messi in cielo. Mio padre guarda la distanza tra il niente e il tutto,
tra quella scoreggia di fumo bianco in mezzo alle nuvole e questo amore
quaggiù, stretto nel cuore che comincia a essere anziano.
Chi
vuoi che abbia voglia di sorvolare una guerra? Invece di gente ce n’è. Uomini
che andranno in quei locali di luci opalescenti e di ragazze bianche come il
burro che hanno appena cominciato a sporcarsi. La svendita è agli inizi, fa
gola arrivare per primi ad arraffare la purezza.
Com’erano
le facce degli ebrei quando guardavano, senza riconoscerlo, il male che gli
veniva incontro?
Lui
diceva: “Le poesie non si spiegano, se raggiungono il posto giusto le senti, ti
grattano dentro”
“Qual
è il posto giusto?”
“Cercalo”.
Ma
forse, penso, ha ragione lei, non sono mai nata. Sono l’ombra dei miei
desideri.
Adesso
non dovevo fare altro che aspettare. Erano loro che tiravano la slitta. Non
correvo nessun rischio. Diego era mio come ogni goccia del mio sangue. E volevo
che quel bambino nascesse dal piacere e non alla tristezza. Ero stufa di
fantasmi rachitici, di donne tristi, di bambini opachi. Mi piaceva il banchetto
di quella giovinezza.
È
tornata in vita anche lei… l’avevo cacciata dalla mia mente come tutto ciò che
è andato perso, una figura laterale, un guscio rotto. E invece adesso vorrei
abbracciarla… la trascino per un braccio nel mondo, la rimetto al suo posto.
Anela non si ricorda di me, però mi guarda. E i suoi occhi sono paludi che
trattengono a stento il pianto.
Inciampo,
resisto. Diego è seduto davanti a me su questa rete… il materasso è senza
lenzuola, è bruciato qua e là, chiazzato. È a torso nudo, suona la chitarra, i
capelli lunghi tenuti da un elastico rubato a me. Ha i piedi sporchi di sangue,
i piedi di un ragazzo che ha camminato sui vetri. Non
mi guarda, canta… Spring is here again… Tender age in bloom… Never mind… Aska è
accanto a lui sul materasso incendiato, trema. Le finestre sono rotte, entrano
raffiche di gelo. Vorrei tirargli una giacca, una coperta… qualcosa. Coprirli.
Sorrido, non hanno freddo, penso, perché sono morti. Sono anni che sono fermi
su questo vecchio letto, prigionieri di questa stanza.
Boati
arrivano dalle montagne. Era la vitacee se ne andava per lasciar posto alla
follia. Ancora non lo sapevano, si strinsero. C’erano quei compiti da
correggere, Mirna li toccava… galleggiavano già lontano, come quelle piccole
vite che li avevano scritti, come quel tavolo, come loro due.
No,
non ricordo esattamente quando il filo della normalità s’interruppe, quando
anche i cani fuggirono a nascondersi… C’erano panni stesi, era primavera, la
stagione delle pulizie, delle finestre aperte. Ogni tanto qualche corvo
berciava per le vie, nessuno gli dava retta. Era una città pacifica, nessuno si
chiedeva più di tanto di che etnia fosse l’altro, il vicino di casa o la
moglie. Si volevano bene o si detestavano per simpatia, per odore, come in ogni
posto del mondo.
Un
giorno Diego tornò con il primo morto in un rullino. Una donna accanto a un
sacchetto da cui rotolano mele.
Si
strappò il laccio dal collo, allontanò la macchina fotografica dal suo torace
come se bruciasse, la buttò sul letto pieno di rabbia, quasi ce l’avesse con
quell’occhio meccanico che lo costringeva a guardare… quel corpo che l’immagine
avrebbe fissato così, per sempre insepolto. Mentre sfilava i rullini mi sembrò
che le mani tremassero, li depositava nel buio di una scatola di latta.
“Mi
sento un becchino, uno che seppellisce”.
L’istruttore
di ginnastica di Sebina era morto, era morta anche la farmacista. Corpi che
rimanevano per un pezzo soli… perchè era troppo pericoloso avvicinarsi, lo
sniper aspettava sul suo mirino. Venivano trascinati via solo di notte, e di
notte veniva sepolti nel vecchio cimitero mussulmano. Funerali silenziosi,
gente lieve come farfalle notturne. Si sfidava la morte per seppellire la
morte.
Di
notte rasentiamo i muri. Insieme a noi altre ombra umane filavano via
silenziose come alghe nel mare. Ci muoviamo in un acquario nero. Non c’è luce,
solo candele spente. Il buio totale. La luna è la lanterna di un fantasma. La
luce rossa di un proiettile al fosforo ci illumina per qualche secondo, poi
cade, come una stella precipitante.
Erano
donne, uomini, bambini che giocavano… E non sapevamo che sarebbero stati incisi
sul muro, fotografati dai cellulari dei turisti all’infinito. Era la fila per
il pane, c’era un buon odore. Era una giornata di fiducia, di lepri che mettono
la testa fuori.
Siamo
chiusi nella nostra omertà. Non parliamo. Facciamo tutti e due la stessa cosa,
cerchiamo di prendere il largo. Di allontanarci da quei giorni mettendo in
mezzo altri giorni, questi giorni che stentano a passare.
Il
mio fronte era questo. Questa città tranquilla. Questa casa pulita e vuota
senza Diego. Non c’erano più i suoi jeans, le sue cicche in giro, i rullini che
rotolavano sotto il divano. Il disordine era tutto suo, e forse sua era la
vita. Da sola non sporcavo, non esistevo. Ero neutra, inodore. Mangiavo e già
toglievo il piatto. Il letto era sempre intatto.
La
notte pensavo a queste vedove, a questi letti grandi, comprati a rate, vuoti a
metà. Faranno come me, resteranno ferme nel buio. Si asciugheranno le lacrime
per non sporcare le federe.
Penso
a questi bambini, al braccio che non useranno mai più per fare quel gesto. Per
sollevarlo e dare la mano al padre.
Un’altra
settimana di silenzio. Vado dal parrucchiere. Mi siedo in quella pianura di
benessere, mi lascio limare anche le unghie dei piedi. Le donne intorno a me
hanno borse eleganti e impegni che le aspettano in questa città che ha ripreso
il suo giro dopo la pausa estiva. Io non ho nulla, solo il mio corpo
abbandonato. Questa testa alla quale ho cercato di dare un ordine esteriore.
Sono in ostaggio di questa terra di nessuno. Esco da lì che sembro una bambola,
intrisa di profumi che non mi appartengono. Piove e non apro l’ombrello, mi
lascio devastare con piacere.
Quanta
vita c’è in quella guerra?
Quanta
morte c’è in questa pace?
La
fioraia di Markale, quella vecchietta che sembra una strega buona, non ne ha
più di veri da vendere, così si è inventata questi piccoli fiori fatti di
pezzetti di carta che arriccia, che colora. E penso che Diego somiglia a questi
fiori di carta, che trattengono la nostalgia dei colori, del profumo, della
vita.
Ora
con un po’ di luce mi accorgo che lo sguardo di Gojko era più sporco che un
tempo, macchiato da quei mesi di guerra. La giovinezza se n’era andata,
sparita. Si trascinava dietro un carico di illusione, di acrimonia… anche il
suo umorismo aveva qualcosa di guasto, puzzava di formiche bruciate come tutto.
E adesso mi sembrava che anch’io sarei invecchiata di colpo.
“Perché
sei qui” gli chiesi.
“Sono
dove devo essere”
Non
bisogna fermarsi a guardare… lasciare agli occhi il tempo di vedere, di
affezionarsi. È questo che bisogna imparare. Non dare ai morti il tempo di
rivelarsi, di diventare reali, bisogna tirare dritto, non discernere un corpo
da un sacco di sabbia, ma lasciarseli dietro, indistinti, allontanarli dal
vero, guardare solo la propria strada. Solo così si può resistere. Non dando ai
morti un nome, un cappotto, un colore di capelli. Lasciarli. Imparare a
scansarli già da lontano, fingere di non averli visti. Fingere che non ci
siano.
Perché
se ti fermi, se te li lasci scivolare dentro… allora inevitabilmente rallenti
il passo.
Ha
uno stano odore anche lei. L’odore dei cittadini di Sarajevo. E non è soltanto
l’acqua che manca, perché oggi ci si lava con la pioggia, è la stanchezza, il
panico che trasuda dai corpi. Un odore di premorte. Come quello delle bestie
terrorizzate che d’un tratto emanano un fetore insopportabile per difendersi.
Sono corpi sottosopra, stomachi alternati di gente che mangia erba e non dorme
ed esce di casa con la certezza di morire.
Piove
su questa piccola fila in cortile. Donne in ciabatte, zuppe che tremano.
“Guarda
come ci siano ridotti…”
Velida
stamattina può piangere, perché piove così tanto che nessuno si accorgerà delle
sue lacrime. Una donna in fila la spinge, lei si fa di lato, la lascia passare.
Poi le cede anche la sua razione di latte, che il vivandiere ha trovato chissà
dove, sono mesi che non si vede un po’ di latte vero. M’arrabbio, le dico che è
troppo magra per permettersi di essere così generosa. Ma lei non vuole ridursi
come un animale, rifiuta quella lotta tra disperati.
“Ha
dei figli” dice, “io ho soltanto la morte.”
Alza
la testa, i capelli bagnati le denudato il capo, sono ciuffetti di lana
fradicia.
“Ormai
la vedo, fino a poco tempo fa la tenevo a distanza, ma ormai è qui, l’ho
lasciata entrare… si siede in cucina come me, mi guarda davanti ai fuochi
spenti, mi fa compagnia. M’invita a danzare. Stanotte indossava le miei scarpe
italiane, quelle del viaggio di nozze, color cammello, aperte sul tallone.”
Il
destino è come il cuore, mi ha detto, è dentro di noi fin dal primo istante,
quindi è inutile cambiare strada.
Gli
occhi passano accanto ai cadaveri e non si fermano, non si voltano. La guerra è
dentro questi passi che continuano, questi occhi stanchi che scartano.
Gli
occhi sono gli unici pezzi di vetro che non cadono, restano lì nei loro telai
tra le ossa, costretti a guardare, a ingoiare immagini che ammalano il corpo.
Madri
intorno piangono, uno dei due pullman è interamente occupato da bambini. C’è
solo un accompagnatore, un uomo robusto, con una cravatta color pesca, che
raccoglie i passaporti.
Questa
cravatta mi tornerà in mente, insieme a quel pullman di bambini, nel salotto di
casa mia a Roma, quando un giorno leggerò che centinaia di bambini evacuati da
Sarajevo sono scomparsi nel nulla. Forse adottati illegalmente, forse molto
peggio. Peggio, da dire: spegni tutto, Dio? Togli il sole, buttaci addosso dal
cielo un pianeta nero come il cuore dei bracconieri in cravatta. Oscura tutto
una volta per sempre. Cancella anche il bene, perché il male vive nelle sue
tasche. In questo istante. In questo. Perché in questo istante un bambino sta
per essere raggiunto. Salva l’ultimo. Spegni tutto, Dio. E non avere pietà, non
abbiamo diritto a nessun testimone.
La
vita è qui, tra queste macerie ricoperte di gelo. E lui non l’ha mai sentita
così forte. LA vita è Khalia, la ragazzina ce trascina lo slittino con i suoi
fratelli sopra, piccole come conigli, è Izet, il vecchio che ogni giorno va
davanti alla sua bottega chiusa alla Baščaršija e s’appoggia alla saracinesca
ammaccata, la vita è la fioraia che vende mazzetti di illusione.
E
mi sento viva, perché non mi è rimasta che la rabbia.
E
forse dovrei raccontare a suo figlio la sensazione di questo vuoto, di questa
vita in caduta. Sono i primi passi che facciamo da soli, da orfani. I passi
incerti di una di quelle bestie dalle zampe lunghe che appena partorite, per
sopravvivere, devo subito mettersi in piedi.
La
verità è che ho scelto, e Diego lo sa. Non me e sarei mai andata a mani vuote.
Ma adesso ho questo pacco a consegnare al mondo. Mi sto portando via la parte
migliore di lui, la vita nuova, quella che nessun dolore ha sporcato. E mi
sembra di vedere il suo sorriso. Mi schiaccio contro l’unica fessura da cui si vede
fuori. L’aereo si sta muovendo. Guardo il ragazzo di Genova per l’ultima volta.
Il
corpo magro e lontano contro la bolla di luce mogia di quell’aeroporto senza
vetri, senza personale, senza voli… sta lì fermo, accanto al poliziotto. Il suo
viso giovane, spolpato come quello di un vecchio, guarda questo C130 che muove
le suo ruote sul nevischio. Guarda noi, quello che sta perdendo.
È
rimasto a terra, in quella terra sporca. E non saprò mai se quel passaporto è
davvero caduto nella neve.
Adesso
si accorge che la donna sta piangendo, pur senza muoversi, senza nemmeno
sbattere gli occhi. Lacrime grosse che cadono a terra come perle. E lui
istintivamente avrebbe voluto raccoglierle come perle di una collana rotta e di
restituirgliele. Conosco lo sguardo dei profughi, della gente che cerca nei
suoi occhi la conferma della propria esistenza, come se fosse lui a decidere di
lasciarli in vita. Sono sguardi che fatica a sostenere.
L’uomo
mi guarda. Ha una faccia larga, compatta, italiana, la fronte lucida di ci ha
perso i capelli.
“Di
chi è?”
E
non sa Giuliano, che quel bambino sarà il suo, che sarà lui ad accompagnarlo a
scuola, dal pediatra. Non sa che vivrà per lui. È un attimo lungo, di placido
sgomento, in quel cesso dove il destino pesca.
Guardo
quest’uomo infondo a questa luce notturna, con in braccio un neonato di
Sarajevo. E d’improvviso sento quel dolore, che poi mi prenderà ogni volta e ha
un modo tutto suo di aggredirmi. Mi stringe la nuca, m’irrigidisce il collo. È
Diego che mi trattiene da dietro, riconosco le sue mani, il suo fiato, però non
posso voltarmi. Era lui che doveva tenere in braccio il bambino, il ragazzo che
sarebbe stato un padre meraviglioso, un santo, un giocoliere. È lui che mi
tiene per la nuca e mi sussurra di guardare il mio destino avanti, le scene
della mia vita senza di lui. È lui che non mi consente di voltarmi. Di
abbracciare la morte.
A
Sarajevo fa ancora molto freddo, è tutto come prima, dice, perché ormai il
peggio non esiste, è stato raggiunto e oltre non c’è nulla, c’è la monotonia
del dolore, come una nenia ce si ripete e si ripete, come un vestito che
struscia nel fango e che nessuno pulirà mai più.
Che
cosa avesse capito non lo sapeva nemmeno lui. Erano le sole parole che gli
erano venute e le aveva pronunciare a piena voce, per tamponare in maniera
dignitosa la situazione, l’emorragia che era cominciata, inarrestabile.
Era
un uomo fermo, mio padre, riservato, piuttosto timido. Non era abituato a
lasciarsi andare. Così il suo corpo resistette al dolore imprigionandolo.
“Hai
saputo qualcosa, papà?”
Adesso
mi ricordo che le nespole sono la frutta preferita da Diego, e che papà gliele
portava sempre.
“Hai
saputo qualcosa?”
E
non capisco perché papà le abbia portare proprio oggi, e sia andato fino in centro
per trovarle visto che non è ancora la stagione, visto che a me non piacciono
granché e lui lo sa bene.
Aveva
mille modi per dirmelo, o forse aveva solo questo.
Mi
ha portati in bocca il sapore di lui mentre viveva, è già un pezzo di qualcosa,
di come faremo in futuro.
Mangeremo
qualche nespola, ogni tanto, in silenzio, per ricordarci di lui, del fotografo
di Genova che aveva scritto il numero di Armando accanto alla parola che gli
era più mancata, papà.
Ora
eccomi vedova.
So
che dovrei reagire, invece guardo le nespole sul tavolo. Mentre sto ferma, so
che non bisogna farlo, che farà male dopo, bisogna piangere, rompersi. È
pericoloso restare in asse, esattamente dove si è, senza spostarsi di un
millimetro, mentre tutto cade. È un eroismo che non serve a nulla, come non
serve a nulla la dignità.
Bene,
non lo vedrò più.
Significa
che non vedrò più le sue gambe da gnu, significa che non sentirò più l’odore
del suo collo. Lui si è portato via gli occhi che mi guardavano e io non potrò
più chiedergli come sono?, e lui non potrà più rispondere sei tu. Significa che
la sua voce è ferma in una gola morta e che questa gola verrà sepolta.
Bene,
è tutto qui.
Decisi
di non andare a Dubrovnik, non avevo più nessuna intenzione di attraversare
quel mare. Avevo il bambino piccolo e papà non stava bene, si stava riprendendo
dalla paresi, ma non era più lo stesso. Eravamo come quelle finte persone dei
film di fantascienza, mutanti svuotati di noi stessi e abitati da automi.
Si
sentiva un suono diverso quando ci davamo il solito bacio, cozzavamo uno contro
il dolore dell’altro, stagno nel corpo, nelle braccia che sembravano di ferro.
E ci dava persino fastidio guardarci in faccia. Era meglio guardare gli
estranei, la gente che non sapeva.
Si
sono trovate a metà strada, madre e figlia. Correvano, una saliva, una
scendeva, sulla stessa scala, per cercarsi.
Se
fossero rimaste esattamente dov’erano avrebbero mangiato un po’ di polvere, un
po’ di paura, e nulla più.
Ormai
erano vicine ad andarsene dall’assedio. Si erano convinte, Gojko aveva trovato
un giornalista amico, un ragazzo di Belgrado che le avrebbe portate con sé.
E
invece si erano mosse, ero uscite dalla scacchiera della vita, senza saperlo.
Camminavano trainate dalla corda che le univa.
Tieni un capo del filo,
con l’altro capo in mano
io correrò nel mondo.
e se dovessi perdermi
tu, mammina mia, tira.
Tirò
la morte per loro, tirò forte. Una granata entrò, attraverso il palazzo
riparato.
In
quell’istante si erano raggiunte. Madre e figlia. Ventre e frutto.
Era
andato a combattere prima a Dobrinja, poi sullo Žuč. Era un poeta, un venditore
ambulante, un radioamatore, una guida per turisti, uno stupido che non aveva
mai tirato nemmeno a un piccione. Invece imparò subito, perché l’odio si impara
in una notte.
Stiamo
lasciando Sarajevo. Gojko cammina verso la macchina, gli guardo la schiena. La
schiena è la parte che non puoi vederti, quella che lasci agli altri. Sulla
schiena pesano i pensieri, le spalle che hai voltato quando hai deciso di
andartene.
Così
Gojko si porta la sua schiena, più bassa da un lato, lì dove ha preso il colpo,
dove la vita ha virato. Il passato è fermo lì sopra, come un falco sulla spalla
di un falconiere.
Chi
sei? Quante volte me lo sarei chiesta. Quante volte ti avrei guardato con
sospetto. Ridi come rideva Diego, come ridono i ragazzi. Sei scemo e
intelligente, sei innocuo e pericoloso. Sei una possibilità tra milioni. Un
ragazzo del Duemilaotto, nato a fine dicembre. Millenovecentonovantadue a
Sarajevo. Sei uno dei primi figli degli stupri etnici.
Siamo
sempre stati un po’ ridicoli insieme, credo che questa sia la nostra bellezza.
La vita è un buco che si infila in un altro buco. E stranamente lo riempie.
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